lunedì 18 maggio 2020

No alle mascherine: sono il simbolo del controllo sociale



La maschera per il viso imposta dalle autorità politiche italiane contro il Covid-19 è diventata, negli Stati Uniti, molto di più di un presidio medico. È un simbolo di responsabilità civile per Nancy Pelosi, la speaker democratica della Camera dei rappresentanti statunitense, mentre per i repubblicani è il simbolo di uno Stato invadente e irrispettoso delle libertà individuali. Il presidente Donald Trump ha di recente visitato una fabbrica in Arizona e ha rifiutato di indossare una maschera, così come il suo vice Mike Pence non l'ha messa in Minnesota. Un recente sondaggio The Associated Press-Norc Center for Public Affairs Research indica il 76% dei democratici inclini a indossare la maschera quando escono di casa contro il 59% dei repubblicani. Politico argomenta che la maschera è "in linea con chi ha una visione collettivistica del mondo, opposta a chi crede nell'individualismo". La conduttrice televisiva di destra, Laura Ingraham, considera le maschere coem un "tentativo di controllo sociale su larghe fette della popolazione". E' una questione che dovremmo valutare attentamente anche qui in Italia. E' vero che, la mascherina è, in linea generale, uno strumento medico per tutelare la salute. Però, nell'insistenza del governo presieduto da Giuseppe Conte, del PD, del Movimento Cinque Stelle c'è un eccesso di fanatismo. Hanno diviso la popolazione italiana in "bravi" (quelli che indossano sempre e comunque le maschere) e "cattivi" (quelli che non le indossano). Puntando, magari, a porre le basi per instaurare in Italia un sistema illiberale di società e di stato, sul modello di quelli comunisti cinesi. Gli italiani dovrebbero fare capire a questi fanatici della mascherina, scrivendoglielo sui social networks, che, se mettono misure di sicurezza scarsamente rispettose delle libertà individuali e frenanti della ripresa economica (saremmo curiosi di conoscere chi è che andrà in un ristorante per una cena romantica bardato con guanti e mascherina, come in una camera operatoria?), non verranno rivoltati. 

giovedì 14 maggio 2020

Il Dragone divora i bar e i ristoranti, agevolato dalle misure di sicurezza impossibili

 

Il commercio cinese prende sempre più piede in Europa, diffondendosi a macchia d’olio e piegando la ristorazione tradizionale: chiudono i bar tradizionali di Venezia. Dopo l'eccessiva chiusura forzata, arrivano delle misure di sicurezza impossibili, approntate dal pomposamente definito "Comitato tecnico - scientifico", dall'Istituto Superiore di Sanità e dall'Inail (Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro), i quali ne capiscono di sanità, però non ne capiscono affatto di economia e di mercato. Però, la colpa non è di queste istituzioni; che, effettivamente, non sono tenute a capirne di economia e di mercato. La colpa è del governo Conte e dei ministri. Loro sì che sono tenuti a capirne. Infatti, già la chiusura aveva costretto al fallimento alcune piccole realtà della ristorazione. Però, adesso, le nuove misure a base di disinfezioni, sanificazioni, distanziamenti, divisori in plexiglas, mascherine (qualcuno ha inventato persino una maschera con tanto di cannuccia per consentire di bere e, forse, chissà, di nutrirsi di soli liquidi, senza levarsela) e guanti causano e causeranno un'ondata di fallimenti di attività a gestione familiare che non riescono e n on riusciranno più a tirare avanti. A prendere il posto di questi gestori, sono i cinesi, con una faccia di bronzo che lascia sbalorditi visto lo scandaloso comportamento del governo comunista; prima, durante e dopo la pandemia. Comportamento che include anche il dare pareri e lezioni non richieste. Un esercente cinese così parlava al Corriere del Veneto: “La Cina ha usato un metodo rigidissimo per l’isolamento della popolazione. Qui invece si consiglia la mascherina solo a chi è ammalato e noi, che veniamo da una cultura in cui la si mette anche per evitare un banale raffreddore, non ne capiamo il motivo.“. Noi, invece, capiamo che, evidentemente, la democrazia non fa parte della "loro cultura", quella comunista. L'Italia è e deve restare una democrazia; non abbiamo bisogno né di pareri, né di lezioni da uno stato e da un governo comunisti; non ci piacciono nemmeno quei "sinistrorsi" piddini e pentastellati che vorrebbero imitare lo stato comunista cinese;  e non vogliamo che venga imposta la museruola a nessuno. Però, c'è di più. Indubbiamente, le nuove misure di sicurezze sono delle direttive partorite da scienziati chiusi nell'idea della sicurezza più assoluta e completamente avulsi dalla realtà economica del Paese. Però, un governo degno di questo nome dovrebbe respingerle queste misure. E, l'attuale governo non è estraniato dalla realtà. Allora, ci diciamo, perché le accetta? Non sarà che, dopo la regolarizzazione degli immigrati, promossa dalla ministra delle politiche agricole alimentari e forestali,Teresa Bellanova (in quota al movimentino renziano Italia Viva), ci sarà la concessione del diritto di voto agli immigrati residenti? E, non sarà che i partiti del centrosinistra (PD, M5S, Italia Viva, Liberi e uguali) pensano alle comunità cinesi come prossimo serbatoio di voti? E, non sarà che i partiti del governo  auspichino, magari, l'acquisto massiccio di bar e ristoranti da parte delle comunità cinesi finanziate dal Dragone comunista? Sicuramente, sono soltanto delle ipotesi, almeno per il momento. Però, potrebbe essere uno scenario realistico. Tutto ci lascia pensare di sì.

mercoledì 13 maggio 2020

Senza aspettare il vaccino: la cura al Coronavirus con il plasma iperimmune



di Maria Grazia Martinelli

 Ho seguito in data 10 maggio una trasmissione in diretta Facebook (facilmente reperibile e che invito ad ascoltare) alla quale ha partecipato il Dott. Giuseppe De Donno, pneumologo in prima linea nello studio e l’attuazione di un protocollo di cura anti-covid basata sul plasma iperimmune. Il professore ha potuto parlare a briglia sciolta ed in maniera più che esaustiva, mettendo in grado qualsiasi spettatore, quindi anche chi come me non è laureato in medicina, di comprendere l’evoluzione della malattia, l’esito delle cure e di apprendere notizie che nessun Tg e nessuna trasmissione in onda sulle reti nazionali ha dato sinora e, probabilmente, mai darà. Innanzitutto, ciò che ho colto in prima battuta, ricevendone la conferma anche all’esito del suo lungo intervento, è stata l’umiltà di uno scienziato che sta dedicando con passione i due terzi delle sue giornate (da più di tre mesi a questa parte) allo studio ed alla ricerca volti ad individuare la cura più efficace per combattere il virus, mirando al fine ultimo, riconducibile al giuramento di Ippocrate (anche nella versione modernizzata) caro ad ogni medico che svolga la professione e sintetizzabile nel‘curare i malati e tutelare la vita’. Per questo, a tratti, il suo intervento ha avuto toni duri ed animati, giustificati da una messa alla gogna subita ma soprattutto dal suo vissuto: vedere morire le persone e sentirsi impotenti genera una sofferenza enorme che poi cambia la vita, De Donno ha detto “io sono un uomo cambiato non tornerò più quello che ero prima” perché ciò a cui ha assistito durante la pandemia non lo ha visto in 25 anni di carriera, polmoniti così gravi da mandare in terapia intensiva un numero così grande di pazienti. Il protocollo che lo pneumologo mantovano sta applicando è coperto da copyright dal 26 marzo, ciononostante vi sono centri in Italia che lo stanno applicando spacciandolo per loro, che dire? Se vogliamo mutuare il principio ‘dai a Cesare quel che è di Cesare’ dobbiamo anche constatare le eccezioni. La sua attività, per chi ha seguito le vicende televisive o ha letto in proposito se ne è reso conto, è stata indubbiamente ostacolata e non solo da alcuni suoi colleghi probabilmente mossi, chissà, da invidia e gelosia tanto da sminuirne l’operato e sollevare dubbi sulla efficacia della cura a base di plasma. Di fatto, come affermato da De Donno, questa cura non sta comportando effetti collaterali o conseguenze avverse ai pazienti ed ha un costo basso (circa 80 euro a malato). Attualmente, ogni giorno vi sono 7-8 ex-pazienti guariti (di cui alcuni provenienti da varie zone d’Italia) che tramite l’AVIS di Mantova donano sacche del proprio plasma che, a seguito di esplicita richiesta, sono anche inviate ad altre strutture ospedaliere sparse in tutta il territorio nazionale. Oltre al contributo squisitamente scientifico, dicevo, il dott. De Donno, grazie alla trasmissione dal taglio decisamente confidenziale e privo di formalità, ha potuto parlare ‘fuori dai denti’ e non ha esitato a far emergere la sua percezione di ostacoli frapposti. Infatti, ha evidenziato che il lavoro scientifico predisposto unitamente alla sua équipe e che è stato sottoposto al vaglio del mondo scientifico al fine di creare la cd. “letteratura”, deve essere pubblicato quanto prima e non subire ritardi o censure basate sulla contrarietà all’utilizzo del siero iperimmune perché “quando uno rifiuta l’utilizzo oppure impone un giudizio che tende ad impedire l’utilizzo del siero iperimmune poi se ne prenderà la responsabilità” e ha aggiunto “questo è il momento di salvare vite, questo è il momento di avere la progettualità” anche per il futuro. Teniamo presente che De Donno, come dal medesimo dichiarato, ha ricevuto offerte dagli Stati Uniti e non vorremmo piangere un domani per la sua decisione di trasferirsi perché costretto a farlo a causa di comportamenti ostili o noncuranti. Ma di fughe di cervelli in Italia abbiamo il primato! Qual è stato il momento in cui è scattata la molla che ha spinto gli scienziati a studiare qualcosa di diverso rispetto alle cure che si stavano applicando ai primi casi (anche se numerosi) di coronavirus? Il professore ha spiegato che sono partiti da un dato di fatto e cioè che i presidi (esperienza, farmaci, etc.) forniti dai medici cinesi arrivati in Italia risultavano insufficienti, trovarsi dinanzi alla morte dei malati e quindi soffrire nel non riuscire a salvare vite come ci si sarebbe auspicati li ha spinti a concentrarsi sulla ricerca di una cura alternativa ed efficace, così hanno iniziato ad usare il siero iperimmune. Sin da subito il lavoro è stato screditato e sminuito da chi sollevando critiche, ha pontificato dicendo che si stava utilizzando una cura già conosciuta (ai tempi della sars, della difterite, ebola, etc. come per dire ‘hai fatto la scoperta dell’acqua calda’). La replica di De Donno giustamente si è incentrata su un dato quasi banale ma indubbiamente di buon senso e cioè se la cura già si conosceva ed era efficace perché non applicarla anche ora? In realtà – prosegue – alcuni scienziati hanno svilito il lavoro e malconsigliato i politici. Per cui a noi cittadini, oltre alle accuse che molti solleverebbero tipo ‘dalli al complottista’, non rimane che la sensazione/certezza che di fronte a un’emergenza sanitaria di grave entità come quella in atto, la posizione ideologica (e forse qualche altro interesse) possa prevalere sull’esigenza sanitaria e sui principi di Ippocrate! La spinta da più parti che sta inneggiando al vaccino come la panacea di questo male non tiene presente il fatto che comunque il vaccino non risolve la malattia, eventualmente potrà prevenirla. Ma correttamente De Donno, che non è da annoverare tra i cd. ‘no-vax’, si chiede: è meglio preferire nell’immediato una cura a base di siero iperimmune che sta funzionando, tant’è che alcune regioni la stanno condividendo, oppure attendere chissà quanto un vaccino la cui sperimentazione sarà di pochi mesi e quindi non si potranno valutare gli effetti collaterali che lo stesso provoca? La risposta mi sembra facile e scontata. Lo pneumologo ha, inoltre, dichiarato che ancora non è dimostrabile che un ex malato Covid-19 potrebbe ricadere nella malattia, ma lo studio dell’équipe è finalizzata anche a verificare la capacità neutralizzante degli anticorpi sviluppati e la sua durata. La tesi per ora è quella di non escludere una possibile ricaduta da parte, però, di una piccola percentuale di pazienti. D’altronde anche in una qualsiasi influenza stagionale vi è la probabilità che chi la contrae a novembre poi potrebbe riprenderla a gennaio. Quello che è certo è che il virus può mutare e che non si possono, ad oggi, fare previsioni, in ogni caso è essenziale la cautela e la convinzione che il virus non ammette distrazioni. Rimaniamo in attesa che lo studio venga finalmente pubblicato e che chi è chiamato a decidere lo faccia per un fine etico rappresentato dal sostegno alla vita e al bene della comunità, senza strumentalizzazioni ideologiche o di comodo, senza fare terrorismo e senza privare ulteriormente gli italiani delle libertà fondamentali. Abbiamo dimostrato di non essere incoscienti seppur dinanzi a regole esageratamente limitative in tutti i campi, è necessario tornare alla normalità affinché al dramma sanitario non si aggiunga quello economico che, dati alla mano, purtroppo sta già procurando danni.

Fonte: Qelsi

Ecco come funziona la “piovra” cinese



di Graziano Davoli

La pandemia da COVID-19 ha risvegliato una parte di Occidente dal sonno eterno che ha impedito di distinguere gli alleati dagli avversari. Pochi leader coraggiosi hanno tirato giù il drappo che nascondeva al mondo l’immagine del Partito Comunista Cinese. Una mole smisurata, lunghi tentacoli che penetrano in ogni anfratto di realtà. Questa creatura l’anno prossimo compirà 100 anni, una manciata di sabbia al cospetto della storia, che è bastata ad alcuni studenti universitari per creare una vera e propria macchina burocratica. Il PCC si presentava inizialmente come aperto e flessibile, il suo sguardo era rivolto alle masse contadine, bastava giurare fedeltà alla causa rivoluzionaria e contribuirvi attivamente per entrarne a far parte. La mutazione cominciò con la nascita della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, all’interno del partito sorsero gli “intellettuali” ai quali era richiesto semplicemente di conoscere alla perfezione i principi del “Libretto rosso”. Nel 1978 Deng Xiapoing attuò alcune riforme economiche che aprirono il paese all’economia di mercato, gli “intellettuali” si trasformarono in “tecnocrati”. La leadership di Jiang Zemin trasformò il PCC nella piovra che conosciamo oggi. La cosiddetta dottrina delle tre rappresentanze permise al partito di affondare i propri tentacoli nella filiera produttiva; nel mondo della cultura dando al marxismo una dimensione nazionale ma soprattutto nella vita dei cinesi che non avrebbe più lasciato. Gli scandali che portarono al potere Xi Jinping permisero al partito di rafforzare le proprie spire, lo studio delle teorie marxiste venne imposto negli atenei universitari e vennero istituite alcune attività “ricreative” (ovviamente obbligatorie) legate al cosiddetto “turismo rosso”. Il PCC è l’unico vero ascensore sociale per i giovani cinesi che aderendovi possono accedere a professioni meglio retribuite, proprio per questo chi desidera entrarvi è sottoposto ad una rigorosa selezione. Occorre presentare domanda all’unità locale e deve essere scritta rigorosamente a mano per dimostrare buona volontà. Successivamente i candidati vengono formati dalle organizzazioni giovanili per diventare membri. Dopo un anno di formazione il candidato deve ricevere il sostegno di due membri ufficiali, si trova così ad affrontare un periodo di prova nel quale partecipa alle riunioni senza votare. Viene dunque “educato”dai gruppi di partito fino al giuramento. Comincia la scalata ai vertici. Attualmente il partito conta all’incirca 90 milioni di membri, tuttavia pochissimi ascendono al Congresso Nazionale, l’unica forma di democrazia interna. I suoi membri si riuniscono ogni cinque anni a Pechino e hanno il compito di deliberare le linee guida del partito, di eleggere gli organi superiori, di rinnovare la costituzione e di approvare il rapporto politico del leader uscente. Chi si distingue all’interno del Congresso Nazionale entra a far parte del Comitato Centrale che si riunisce una volta all’anno in sessione plenaria. Le sessioni sono in tutto sette. La prima esprime gli organi principali: Politburo, Comitato Permanente e Segretario Generale. La seconda si occupa delle nomine di stato. La terza decreta le riforme economiche. La quarta determina la governance. La quinta rinnova i piani quinquennali. La sesta si occupa del rinnovo dell’apparato ideologico. La settima approva gli emendamenti allo statuto del PCC. Il Comitato Centrale elegge i 25 membri del Politburo, il centro decisionale, che si riunisce ogni due mesi. Il Comitato Permanente del Politburo ha pari importanza. I suoi sette membri vengono eletti ogni cinque anni e si riuniscono una o due volte alla settimana. Le decisioni al suo interno devono essere unanimi. Infine vi è il Segretario generale che ricopre il ruolo di presidente della Repubblica Popolare Cinese e della Commissione militare centrale. Non stupisce l’amore disperato del governo per Pechino. Il suo azionista di maggioranza possiede una struttura simile. Un capo indiscusso ai vertici che fa il bello e il cattivo tempo attraverso una piattaforma online, unico barlume di democrazia interna offuscato da continui problemi sistemici ogni volta che si vota in difformità con la linea ufficiale.

Fonte: L'Occidentale

COVID-19: DOMANDE AGLI ESPERTI. Ma se Covid-19 diventa un raffreddore, perché perseverare con il vaccino? Ma se il virus Sars-CoV2 muta più veloce di una lepre, come fa la tartaruga vaccino ad acchiapparlo?




Domandine agli esperti. Ma se la malattia Covid-19 diventa un raffreddore, perché perseverare con il vaccino? Ma se il virus Sars-CoV2 muta più veloce di una lepre, come farà la tartaruga vaccino ad acchiapparlo? E qualche piccolo passo nella storia recente.
di Marinella Correggia

Se lo dicono loro, i virologi in coro, non dovremmo crederlo, noi profani? Ecco qua.
1. Coro virale dei virologi: «Il Covid19 diventa un raffreddore»
A Piazzapulita (La7), Giuseppe Remuzzi, direttore dell’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri rassicura: «Io vedo questi malati che non sono più quelli di prima. Le persone contagiate oggi stanno decisamente meglio rispetto a quelle infettate due mesi fa.(…) Adesso stiamo facendo degli studi, e non troviamo gli ammalati per fare gli studi, è una cosa bellissima (…) sembra di essere di fronte a una malattia molto diversa da quella che ha messo in crisi le nostre strutture».
Idem con patate per il virologo Massimo Clementi, direttore del laboratorio di virologia del San Raffaele di Milano. Intervistato dal Corriere della Sera afferma:«L’infezione non sfocia più nella fase gravissima, la cosiddetta “tempesta di citochine (…) sono in forte calo i pazienti che hanno bisogno di ospedalizzazione, l’epidemia c’è ancora ma dal punto di vista clinico si sta svuotando. La malattia si è modificata o si sta modificando». E anche: «Il coronavirus ha perso la sua potenza. (…) Ci aspettiamo che questo nuovo coronavirus possa pian piano diventare innocuo, come i suoi ‘cugini’ responsabili del raffreddore». Del resto, «conosciamo altri 6 coronavirus umani, 4 ci infettano da sempre”. Quello con cui abbiamo a che fare da qualche mese “potrebbe, se continua così, modificare il suo profilo clinico di rischio e adattarsi all’ospite, cambiando geneticamente».
Un altro Massimo, Ciccozzi, responsabile dell’unità di statistica medica ed epidemiologica dell’Università Campus biomedico di Roma, ha affermato durante un’audizione a Senato: «Stiamo osservando che il virus perde potenza; evolve, ma perde contagiosità e, probabilmente, letalità».
E anche Matteo Bassetti, direttore del reparto Malattie Infettive dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova, spiega (lo riporta ilmeteo.it): «A marzo questo virus era uno tsunami, ora è diventato un’ondina. Forse è perché ha già colpito i soggetti più fragili, facendo una “selezione naturale”, o forse si è depotenziato. È un’iniezione di fiducia per la fase 2, ma per giudicare se gli italiani si saranno comportati bene ci vorranno 2-3 settimane».

2. Vaccini antinfluenzali di ieri, il caso H1N1
Nondimeno, con una totale mancanza di logica, alla domanda se pensa che il virus scomparirà prima del vaccino, l’esperto Remuzzi – di cui all’inizio – risponde: «Ci sarà il vaccino, ma probabilmente quando arriverà io mi auguro, se le cose andranno come vanno adesso, il virus non ci sarà più». Però «servirà per la prossima volta o per altri virus».
Ma il ragionamento dov’è? Servirà per altri virus? Ma i vaccini per le influenze (più che discutibili visto i loro risultati) non vengono cambiati ogni anno sennò non vanno più bene perché i virus influenzali mutano (a differenza di altri)?
A questo punto facciamo un piccolo passo indietro, nella storia recentissima, ma dimenticata. Del resto, «la storia è un’ottima maestra. Ma non ha allievi»: Antonio Gramsci. Che avesse ragione, lo abbiamo visto tante volte, nei ripetitivi meccanismi che hanno portato alle guerre di aggressione delle quali si è macchiata l’Italia fino all’altro ieri.
E dunque andiamo al 2009. Virus influenzale A/H1N1, sottotipo del virus dell’influenza A che fu quell’anno il più comune. Spiegava all’epoca il sito Epicentro dell’Istituto superiore di sanità (https://www.epicentro.iss.it/focus/h1n1/faqEcdc ): «L’attuale virus epidemico influenzale A/H1N1 è un nuovo sottotipo di virus di influenza umana che contiene geni di virus aviari, suini e umani in una combinazione che non era mai stata osservata prima, in nessuna area del mondo. I nuovi virus sono spesso il risultato di un riassortimento di geni provenienti da altri virus (scambio di geni). Questo virus A/H1N1 è il risultato di una combinazione di due virus dell’influenza suina che contenevano geni di origine aviaria e umana. Non c’è alcuna prova che questo riassortimento sia avvenuto in Messico».
Epicentro, poi, nell’aprile 2009 (https://www.epicentro.iss.it/focus/h1n1/FaqVaccinoCe ) precisava in una serie di domande e risposte: «Al momento non è disponibile alcun vaccino contro la nuova influenza A(H1N1). Gli unici vaccini attualmente disponibili sono quelli contro i ceppi dell’influenza stagionale 2008/2009». Proseguendo: «Il vaccino contro l’influenza stagionale umana è efficace contro il nuovo virus influenzale A(H1N1)? Non è ancora stato stabilito con certezza se i vaccini contro il virus dell’influenza stagionale 2008/2009 proteggano contro il virus A(H1N1). Dal momento che questo nuovo virus dell’influenza evolve molto rapidamente, è importante sviluppare un vaccino contro il ceppo virale che sta causando epidemie in Messico e in altri Paesi, così da garantire la massima protezione. Tra i virus della normale influenza umana H1N1 (coperta dai vaccini stagionali) e il nuovo virus influenzale A(H1N1) ci sono alcune caratteristiche comuni: non è quindi possibile escludere che si abbia una protezione crociata ma, se si avesse, sarebbe probabilmente solo parziale».
L’11 giugno 2009, l’Oms dichiara lo stato di «pandemia» per il nuovo ceppo di origine suina H1N1. La prima pandemia globale dopo quella dell’influenza di Hong-Kong del 1968. Il 10 agosto 2010, la stessa Oms revoca la pandemia: l’attività dell’influenza a livello mondiale è tornata ai tipici ritmi stagionali (https://www.cidrap.umn.edu/news-perspective/2010/08/who-says-h1n1-pandemic-over). I morti ci furono, ma quanti? I decessi confermati della pandemia fra aprile 2009 e agosto 2010 furono 18.500. Secondo Lancet (https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(12)70121-4/fulltext ) «quel numero è probabilmente solo una frazione del numero totale di morti associate alla pandemia influenzale A H1N1». La stima della rivista medica arrivava a 201.200 decessi per cause respiratorie (il range andando da 105.700 a 395.600) più aggiuntivi 83.300 decessi per ragioni cardiovascolari (range fra 46.000 e 179.900). Insomma, un’inflazione di numeri.
Ma dunque cosa accadde all’epoca del virus H1N1 sul lato del vaccino? Prendiamo un articolo, chiaro fin dal titolo («Ecco quanto ci è costato il flop del vaccino», di Elena Dosi) del gennaio 2010, sul quotidiano mainstream Repubblica (https://www.repubblica.it/cronaca/2010/01/16/news/vaccino_virus_a-1966773/): «La pandemia fugge. I costi dei vaccini restano. Ventiquattro milioni di dosi acquistate dall’Italia contro il virus H1N1 al prezzo di 184 milioni di euro, 10 milioni di dosi ritirate dalle fabbriche e distribuite alle Asl, 865mila effettivamente inoculate. La stragrande maggioranza delle confezioni resta stoccata nelle farmacie delle Asl, nei centri vaccinali dei distretti o negli studi dei medici di famiglia. Un viaggio tra le aziende sanitarie italiane parla di frigoriferi pieni (i vaccini vanno conservati a 4 gradi pena la loro degradazione) e di scetticismo fra i cittadini al centro della campagna di immunizzazione. Oltre 20 milioni di persone rientrano tra la “popolazione eleggibile” da vaccinare secondo il ministero, ma solo 827mila hanno porto il braccio alla siringa, con una proporzione del 3,99%. E se l’Italia ha già deciso di donare il 10% delle proprie dosi (2,4 milioni) all’Oms perché le distribuisca ai paesi poveri, la gran parte delle boccette sembra avviata alla scadenza, prevista 12 mesi dopo la data di produzione e quindi a scaglioni tra settembre e dicembre 2010. A quel punto, non resterà altro da fare che buttarle. Dalle università alcuni virologi provano a spiegarci cosa è successo, e il perché di tanta sproporzione. “L’influenza mette sempre in difficoltà chi deve fare previsioni. I modelli possono saltare, i virus ci sorprendono spesso” fa notare Pietro Crovari, professore emerito di igiene e medicina preventiva all’università di Genova». .
E ancora una volta: dove sta la logica? Continua l’articolo: «Ma per la Novartis che ha stipulato il contratto con il Ministero della Salute l’incasso sarà pieno lo stesso. I 184 milioni pattuiti nel contratto del 21 agosto 2009 (quando la pandemia colpiva soprattutto le Americhe e non aveva ancora raggiunto l’Italia) saranno versati in toto anche se i vaccini consegnati sono meno della metà di quelli concordati. Nel contratto infatti non esiste una clausola di riduzione a favore del ministero. E se ieri il Codacons ha annunciato una class action a nome dei 60 milioni di utenti del sistema sanitario italiano, anche la Corte dei Conti ha avviato una procedura di controllo sul “decreto direttoriale del 27 agosto 2009 concernente l’approvazione del contratto di fornitura di dosi di vaccini antinfluenzale A(H1N1) stipulato tra il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali e la Novartis Vaccines and Diagnostics s. r. l.2. Il Codacons chiede la risoluzione del contratto con l’industria farmaceutica (“Uno spreco immane vista la scarsa adesione alla vaccinazione”) e il rimborso ai cittadini dei 184 milioni di euro spesi.»

3. La poco simpatica storia del Tamiflu contro l’incubo dell’aviaria A(H5N1)
E vogliamo parlare anche del farmaco inutile Tamiflu (Roche) contro l’influenza aviaria A(H5N1)? Cominciamo però dai morti che fece fra il 2003 e il 2014. Ecco i dati ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) (consultabili qui: http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato1560712.pdf). La tabella Cumulative number of confirmed human cases for avian influenza A(H5N1) reported to WHO, 2003-2014 riporta… 650 casi con 386 morti (concentrati in 16 paesi (ma soprattutto Indonesia, Vietnam, Cina, Cambogia, Egitto).
Ingentissime furono le spese per un farmaco inutile. Sul sito del Sindacato italiano veterinari di medicina pubblica Sivemp Veneto (https://www.sivempveneto.it/il-farmaco-inutile-contro-laviaria-pagato-dai-governi-oltre-tre-miliardi-ricerca-indipendente-qsmontaq-il-tamiflu-inefficace/), nel 2014 Corrado Zunino scriveva: «Il costoso farmaco Tamiflu che ci avrebbe salvato dall’aviaria, che avrebbe impedito il passaggio dell’influenza dai polli all’uomo su scala mondiale e combattuto un’epidemia che nei grafici clinici avrebbe potuto fare 150mila morti soltanto in Italia, non è servito a niente. Solo a gonfiare i bilanci della Roche spa, multinazionale svizzera che grazie alle ondate di panico collettivo ha venduto nel mondo, solo nel 2009, confezioni per 2,64 miliardi di euro. Due miliardi e sei per un solo farmaco che, si calcola, a quella data è stato utilizzato da 50 milioni di persone. Inutilmente. Già. Un gruppo di scienziati indipendenti – Cochrane collaboration – ha ripreso in questi giorni un suo studio realizzato nel 2009 sul rapporto tra l’antivirale Tamiflu e l’influenza suina (seimila casi mortali nel mondo). E se allora l’organizzazione medica no profit sosteneva che non c’erano prove a sostegno dell’utilità del medicinale per la suina, ora si spinge oltre e lo stampa sul British medical journal: per l’influenza aviaria (62 morti accertati, fino al 2006) l’antivirale della Roche è stato inutile. Lo si certifica adesso, ma per dieci anni una teoria di stati nel mondo, sull’onda della speculazione emotiva, ha accumulato milioni di confezioni, buttato valanghe di denaro pubblico e, dopo cinque stagioni, buttato anche le confezioni scadute. Secondo la controricerca il Tamiflu (dai 35 ai 70 euro a scatola, secondo richiesta e Paese) contrappone alle influenze gli stessi effetti del più conosciuto Paracetamolo. Non ha prevenuto la diffusione della pandemia, né ha ridotto il rischio di complicazioni letali. Ha attenuato solo, nei primi quattro giorni del contagio, alcuni sintomi. Una tachipirina, non certo la panacea per epidemie da kolossal. Ecco servito un nuovo caso di inganno Big Pharma, segnalato da ricercatori che hanno rilevato errori e mancanze in ogni stadio del processo: la produzione, le agenzie di controllo, le istituzioni di governo. (…) il Tamiflu passerà alla storia della farmaceutica contemporanea come il medicinale più gonfiato e redditizio».

4. Le idee dei virologi cambiano veloci come i virus influenzali
Gira sui ceppi accesi di whatsapp una collezione di ipsi dixerunt: dieci faccione di virologi e per ognuna una dichiarazione risalente al mese di febbraio a proposito del CoVid19. All’epoca, il virus Sars-CoV-2 aveva già dispiegato i propri effetti sanitari e politici in Cina.
Roberto Burioni: «In Italia siamo tranquilli, il virus non c’è. Il rischio è zero, preoccupatevi dei fulmini». Massimo Galli: «L’avanzata a livello globale è molto bassa. In Italia il virus non si diffonderà». Filippo Luciani: «Il Coronavirus è meno letale dell’influenza». Fabrizio Pulvirenti: «L’epidemia influenzale è ben più grave e diffusibile (sic) rispetto al Coronavirus». Matteo Bassetti: «Non bisogna fare nulla (per difendersi dal virus). Certo non serve mettersi le mascherine». Ilaria Capua: «Questo virus è molto meno aggressivo di tante infezioni che conosciamo». Giovanni Di Perri: «Quello che stiamo affrontando è un fenomeno infettivo simile all’influenza: frequente e banale».
Di lì a poco, i virologi avrebbero virato di 180 gradi (en douce, come dicono i francesi: di soppiatto) trasformandosi in produttori industriali di panico.
Ora a quanto pare sono tornati al punto di partenza e il giro di 360 gradi è compiuto. Mentre nel frattempo errori su errori hanno provocato morti su morti.
Una storia che gli esperti studieranno.
Forse.
Marinella Correggia (10 maggio 2020)

Fonte: Emigrazione Notizie

I primi drammatici effetti della "ripartenza" che non c'è



Purtroppo, insieme all'inesistente "ripartenza", cominciano gli effetti drammatici, drammaticissimi. E’ un vero e proprio dramma quello che stanno attraversando gli imprenditori in questi tempi in cui un governo, un Comitato tecnico-scientifico ed altre organizzazioni che non comprendono assolutamente niente di economia decidono dei destini delle loro imprese. Già piegati dagli errori dei precedenti governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, adesso il governo Conte dà agli imprenditori il colpo più forte. Questa falsa "riapertura" a base di misure di sicurezza costosissime causa agli imprenditori (dopo la lunga, sbagliata chiusura e l'inservibile "decreto liquidità") un ulteriore danno economico da cui rialzarsi sarà impossibile. Finora, gli imprenditori hanno tentato di fare i conti e di tirare avanti, però, adesso, questa falsa "ripartenza" ed il prolungamento dello stato di emergenza hanno cancellato ogni speranza. I risultati sono, purtroppo, i suicidi degli imprenditori. L'Osservatorio ''Suicidi per motivazioni economiche'' della Link Campus University - Osservatorio permanente sul fenomeno delle morti legate alla crisi e alle difficoltà economiche avviato nel 2012 - pubblica oggi i dati aggiornati lanciando un severo allarme per il dramma che si sta consumando nel nostro Paese: ''quella che osserviamo - dichiara Nicola Ferrigni, professore associato di Sociologia generale e direttore dell'Osservatorio ''Suicidi per motivazioni economiche'' - è una tragedia nella tragedia in cui alle già tante vittime del Coronavirus occorre sommare i tanti, troppi suicidi legati agli effetti economici dell'emergenza sanitaria. I dati - prosegue il sociologo Ferrigni - sono impietosi: dall'inizio dell'anno sono già 42 i suicidi, di cui 25 quelli registrati durante le settimane della chiusura forzata; 16 nel solo mese di aprile. Questa ''impennata'' risulta ancor più preoccupante se confrontiamo il dato 2020 con quello rilevato appena un anno fa: nei mesi di marzo-aprile 2019, il numero delle vittime si attestava infatti a 14, e il fenomeno dei suicidi registrava la prima vera battuta d'arresto dopo anni di costante crescita''. Di pochissimi giorni fa la notizia dell’imprenditore Antonio Nogara, di Napoli, morto suicida attanagliato dalle preoccupazioni e dalle difficoltà di una crisi che in questi mesi di ”fermo” non aveva certo risparmiato la sua impresa, i dipendenti e le sue responsabilità come titolare d’azienda. Si è tolto la vita, impiccandosi nei capannoni della sua azienda, situata alla periferia est di Napoli, quando ormai aveva perso tutte le speranze: le notizie aveva contribuito a levargli ogni speranza, creandogli un malessere tale da non trovare alcuna soluzione. Ha lasciato una lettera d’addio per spiegare come il suo tragico gesto sia legato a motivi di natura economica. Racconta un amico al Corriere della Sera: “era un riferimento positivo. Se lo Stato non interviene prontamente, ci saranno altri casi come il suo. Per un imprenditore è dura sentirsi umiliato. Se ci sono le tasse ci devono essere anche gli aiuti concreti nel momento del bisogno”. Un altro caso straziante, dopo quello di Carmelo Serva, un ristoratore. A questi numeri, di per sé già spaventosamente significativi, vanno poi aggiunti anche quelli relativi ai tentati suicidi: 36 da inizio anno, 21 nelle sole settimane di chiusura forzata. Gli ultimi dati diffusi dall’Osservatorio alzano a 1.128 il totale dei suicidi legati a motivazioni economiche in Italia dal 2012 a oggi, e a 860 i tentati suicidi. Le vittime, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio, sono per lo più imprenditori: 14, sul totale dei 25 casi registrati nel periodo del blocco. Un numero raggelante che sottolinea, ancora una volta, e oggi con maggiore forza, la necessità di intervenire con misure e interventi a sostegno del tessuto imprenditoriale. “Pochi mesi fa il nostro Osservatorio rimarcava, in un contesto di fiducia dato dal generalizzato calo del numero dei suicidi, soprattutto tra disoccupati e precari, l’esigenza di un programma di politiche economiche più ampio e strutturato, capace di guardare in modo particolare alle imprese e agli imprenditori”. “Oggi più che mai questa esigenza diventa stringente – conclude Nicola Ferrigni – non solo per ricostruire il nostro Paese e per far ripartire l’economia, ma anche per prevenire quella che si sta delineando come una strage silenziosa, di cui le principali vittime sono gli imprenditori in difficoltà”. Lo abbiamo già scritto, lo riscriviamo e lo riscriveremo: se non si vuole giungere ad una crisi irrisolvibile, sono indispensabili sia un governo che abbia la fiducia dei mercati che l'abrogazione di tutte le misure eccessivamente stringenti di sicurezza che bloccano la ripresa economica.

martedì 12 maggio 2020

Perché il decreto liquidità non ha funzionato e non funzionerà



Il mondo dell’imprenditoria e, più in generale, le forze socio economiche del Paese che alimentano l’offerta dei beni e dei servizi avrebbero necessitato di un sostegno immediato, almeno per il ripianamento dei debiti e delle spese accumulate durante il lockdown, in totale assenza di fatturato. Si è determinata una situazione non più sostenibile per le tutte le nostre imprese, micro, piccole, medie e grandi. Lo Stato avrebbe dovuto senz’altro far fronte rapidamente a tale situazione. In tutti i Paesi europei la risposta è arrivata mediante un sistema di garanzie statali ad altissime percentuali di copertura su finanziamenti bancari (fino al 90% dell’importo finanziato in base alle dimensioni e al fatturato dell’impresa). Nel nostro Paese è stato adottato il così detto “decreto liquidità” che ha previsto un pacchetto di misure di agevolazione per il sostegno alla liquidità delle nostre imprese. In particolare per i professionisti, lavoratori con partita IVA e PMI è stato previsto un sistema di garanzie a prima richiesta concesse dal Fondo Centrale di Garanzia per le PMI. Modificando il previgente regime, il così detto “decreto liquidità” ha aumentato la garanzia del Fondo al 90% (con la possibilità di arrivare al 100% con l’intervento di confidi o altra forma di garanzia), mentre per i finanziamenti fino ad un massimo di 25 mila euro è innalzata al 100%. In ogni caso le garanzie sono concesse su finanziamenti fino ad un massimo del 25% del fatturato e comunque non superiore a 5 milioni di euro. Per le garanzie al 90% è previsto che le stesse siano concesse sulla base di una valutazione economico-finanziaria da parte del Fondo Centrale di Garanzia. Nulla viene detto in relazione alla valutazione operata dalla banca finanziatrice. Per quanto riguarda i finanziamenti di importo fino a 25 mila euro (per i quali la garanzia del Fondo è al 100%) è stata eliminata la valutazione del merito di credito da parte del Fondo di Garanzia. Nulla è stato detto relativamente alla valutazione da parte della banca che gode di una garanzia al 100%. La banca potrebbe quindi limitarsi a compiere una veloce istruttoria in conformità alla normativa bancaria di derivazione comunitaria. La banca finanziatrice, nelle intenzioni del decreto, potrebbe, dunque, erogare senza nemmeno attendere l’esito definitivo dell’istruttoria da parte del gestore del Fondo medesimo. Infine, viene indicato che per questi finanziamenti il tasso di interesse applicabile dalla banca sia molto basso (ossia non superiore al tasso di rendistato con durata residua da 4 anni e 7 mesi a 6 anni e 6 mesi, maggiorato della differenza tra il CDS banche a 5 anni e il CDS ITA a 5 anni, maggiorato dello 0,20 per cento).  Occorre anche evidenziare che tutti i finanziamenti fino a 5 milioni di euro coperti mediante garanzia del Fondo Centrale di Garanzia, al 90% o al 100% per importi fino a 25 mila euro, sono concessi senza alcun tipo di impegno da parte del beneficiario circa il reale utilizzo di tali risorse. Per concludere potrebbe dirsi che il decreto liquidità sembra aver introdotto misure ancor più agevolate rispetto ad ogni altro Paese europeo. Perché, allora, il decreto liquidità non funziona? Perché le banche non vogliono proprio saperne di fare quell'"atto d'amore" che il signor Giuseppe Conte gli ha chiesto? Vediamo, brevemente. Poniamo che la titolare di una piccola attività commerciale richieda alla sua banca un finanziamento da 10mila euro con garanzia pubblica. In questo caso si ricadrebbe nella fattispecie di prestiti “di importo non superiore al 25% dei ricavi fino a un massimo di 25mila euro” che non prevede alcuna valutazione del merito di credito, con erogazione del denaro senza attendere il via libera del Fondo di garanzia. Perché a questa ipotetica commerciante una banca (com'è successo nella realtà) non accrediterebbe i soldi sul conto rapidamente, come prevede il decreto? Semplice, perché le banche non di fidano delle garanzie di un governo statalista e filo - comunista, come quello presieduto da Giuseppe Conte, che non gode della fiducia dei governi dei mercati economici e finanziari. Dunque, una banca proporrebbe alla nostra ipotetica commerciante tutta una serie di fidi e prodotti vari alternativi al meccanismo previsto dal decreto liquidità. Così come una banca chiederebbe alla nostra ipotetica commerciante la stipulazione di una polizza a garanzia, o, almeno, un prospetto di bilancio dell'attività commerciale che ne certifichi la "buona salute" economica e finanziaria. In conclusione, la colpa non è sicuramente della nostra ipotetica commerciante. La verità è che la garanzia di un governo di cui i mercati non si fidano è una garanzia priva di qualsiasi valore. La colpa è  di un governo che non sa gestire l'economia e quando lo fa sbaglia , come con la "ripartenza" sbagliata sotto ogni aspetto. Certamente la situazione si potrebbe ancora salvare. Come? Insediando un nuovo governo che goda della fiducia dei mercati e che non mortifichi con ormai ingiustificate restrizioni sanitarie la libertà delle imprese. Prendendo le distanze dai paesi comunisti. Smantellando il Comitato tecnico-scientifico. Sollevando dal suo incarico il signor Domenico Arcuri. Abrogando ogni restrizione sanitaria (a parte quelle dettate dal buon senso del distanziamento di un metro e di evitare un eccessivo affollamento negli esercizi commerciali), visto che l'epidemia è ormai terminata (a meno di non volere dare credito alle "fake news" dei partiti al governo), e che rappresentano un freno insormontabile alla ripresa. Formando una commissione ristretta di economisti esperti. Smettendola di delegare alla Protezione civile delle scelte che hanno una ricaduta economica. Altrimenti, l'Italia, gli italiani e l'economia italiana andranno a sbattere contro il muro. Questa vola non sarà un secondo 1929, perché, allora, l'Italia si era ripresa. Questa recessione, se non si interviene, come abbiamo scritto, sarà cento volte peggio del 1929.

lunedì 11 maggio 2020

Il governo degli incompetenti e il comitato tecnico-scientifico ammazzeranno i ristoranti italiani



Le raccomandazioni sanitarie, la chiusura delle aziende, le restrizioni alla circolazione, il dibattito sull’uso delle mascherine, le valutazioni sui test sierologici. E ora le regole per stabilire l’inizio della “fase due”. Per ciascuno dei provvedimenti adottati fino ad oggi, Palazzo Chigi si è mosso consultando e ascoltando le indicazioni del Comitato tecnico-scientifico. Un organismo entrato nelle case degli italiani attraverso telegiornali e conferenze stampa. Si tratta di un cenacolo di scienziati assortiti che sapranno anche ogni cosa del coronavirus, ma, che chiamati a decidere come e quando riaprire le attività imprenditoriali, dimostrano di non capire niente di economia e di mercato. Ci diranno che si tratta di scienziati, e non di economisti. Questo è vero. Però, la medesima incompetenza in materia di economia e di mercato la dimostra anche il governo Conte, e la dimostrano anche i partiti che lo sostengono, ossia il Partito Democratico ed il Movimento Cinque Stelle. Perché solo un'assoluta incompetenza in materia di economia e di mercato può spingere sia il governo che il Comitato tecnico-scientifico a condizionare la riapertura dei ristoranti all'adozione nei locali di Pannelli in plexiglass, totem per misurare la temperatura corporea, dispenser per il gel disinfettante, menù virtuali, mascherine e guanti. Appare chiaro che sia gli esponenti del governo Conte che gli scienziati del Comitato tecnico-scientifico sono totalmente distaccati dalla realtà. Altrimenti, saprebbero che quasi nessun cliente sano di mente andrebbe a pranzo o a cena concepite come relax e divertimento sottoponendosi ad un rituale lunghissimo e snervante. Si comincia con la misurazione della febbre, si continua con la disinfezione per mani e piedi; con l'obbligo d'indossare la maschera facciale, i guanti e la visiera; con il pranzare o cenare a tavoli divisi a metà da dei divisori in plexiglas simili a quelli del parlatori di un carcere di massima sicurezza. Se il governo ed il Comitato tecnico-scientifico adotteranno queste misure condanneranno a morte sicura la quasi totalità del settore della ristorazione. Infatti, sia il governo che questo Comitato sono completamente digiuni di qualsiasi nozione di che cosa siano l'economia ed il mercato. Altrimenti, saprebbero che offerta e domanda devono incontrarsi e che se non si incontrano allora comincia una crisi recessiva dagli esiti potenzialmente catastrofici. Questi sono i "fondamentali" dell'economia politica e passi che gli scienziati non li conoscano, però dei politici, come i piddini ed i pentastellati che hanno la presunzione di governarci, dovrebbero avere sulla punta della lingua queste nozioni. Questo governo di piddini e di pentastellati si sta dimostrando una volta di più una congrega di statalisti, completamente incompetenti riguardo al mercato ed ai suoi meccanismi della domanda e dell'offerta. Però, loro mica la conoscono la realtà del mercato, loro sono boiardi di stato. A loro non interessa se un ristorante riuscirà ad affrontare i costi degli adeguamenti alle procedure. Così, come sempre ai boiardi del governo e del Comitato non importa se i clienti accorreranno o meno. Loro sono boiardi di stato, sono stipendiati grazie alle tasse di noi cittadini e non si preoccupano delle imprese. Loro dettano delle direttive astratte e disancorate sia dalla realtà delle imprese che delle persone e dicono: o le applicate o non aprite. Questo è un classico ragionamento di quegli statalisti, di quei comunisti, di quei socialisti che quando disgraziatamente prendono il potere mandano in dissesto l''economia. A questo punto, qualche militante piddino o pentastellato che ragiona con la testa dei suoi dirigenti invece che con la propria dirà: "C'è l'epidemia!". Già, peccato che parecchie terapie intensive siano ormai chiuse. Perciò, queste assurde misure per questa falsa "ripartenza" o vengono scelte per incompetenza o per totale disprezzo dell'economia di mercato. Non è un caso che le misure scelte dal governo italiano per questa finta "ripartenza" sian le stesse adottate a Wuhan e nel resto della Cina comunista. A causa di queste misure disgraziate nel settore della ristorazione italiana si rischierà un tasso di fallimenti altissimi. Il  rischio è che sopravvivano soltanto le grandi catene e che a morire sia la gastronomia nazionale. A nostro parere le cosiddette misure protettive vanno abrogate immediatamente (ritornando allo status quo ante lockdown, in cui le sole misure erano il numero di persone presenti negli esercizi commerciali ed il distanziamento di un metro), lo stato d'emergenza va revocato ed il Comitato tecnico-scientifico va rispedito a casa. Soltanto questo può rivitalizzare il mercato. Si ricordi il governo che la strada su cui si è incamminato e sulla quale sta spingendo il Paese finisce contro il muro del fallimento dell'economia nazionale.

Non vogliamo i nostri figli condannati al braccialetto elettronico, come i detenuti



Bambini tra i 4 e i 6 anni con un braccialetto hi-tech ai polsi, come quelli dei detenuti condannati agli arresti domiciliari, per tornare all'asilo. E' il futuro che si annuncia per i nostri figli (in particolare, l'esperimento comincia in una scuola dell'infanzia paritaria nel Varesotto, a Castellanza), dove direttori e docenti si dicono "pronti a ripartire". E in attesa della riapertura sono stati acquistati, da una ditta italiana, duecento braccialetti  per gli alunni. Gli apparecchi elettronici vengono legati al polso dei piccoli all'interno dell'istituto: una volta impostata la misura di un metro minimo di distanza tra loro, gli aggeggi vibrano e si illuminano se si supera il limite consentito di vicinanza fisica. Insomma, funzionano come quelli per i detenuti: non appena il detenuto si allontana oltre i limiti dall’abitazione il segnale elettronico viene inviato alla Caserma che immediatamente manda una pattuglia a controllare. Il braccialetto a cui vorrebbero condannare i nostri figli si servirà anche di una app che a distanza permetterà di monitorare ogni contatto tra i piccoli nell'istituto scolastico. Però, non non ci stiamo. I nostri figli non sono dei detenuti in custodia cautelare, soggetti ad evasione. In più dicono: "l'iniziativa sarà sviluppata e spiegata come se fosse un gioco". Ancora peggio. Vogliono diseducare i nostri figli. Vogliono condizionare le loro menti ad accettare le limitazioni della libertà. Qui non siamo né nella Cina comunista, né nella Corea del Nord. Questo concetto il governo Conte deve impiantarselo bene nella mente. L'Italia è una nazione democratica e liberale ed esigiamo che lo rimanga. Se ne facciano una ragione gli ammiratori piddini e pentastellati del presidente cinese Xi Jinping. Noi questa "scuola" che diventa un carcere non la vogliamo. Nè adesso, né mai.

domenica 10 maggio 2020

1 / C'è una barbarie nel pianeta: è il comunismo cinese - dal 1921 al 1945



(Un proprietario terriero cinese viene giustiziato da un soldato comunista a Fukang, in Cina)

In tutta la sua storia, durata oltre ottanta anni, ogni cosa che il partito comunista cinese ha toccato è stata cosparsa di menzogne, guerre, carestie, tirannia, massacri e terrore. Le fedi e i principi tradizionali sono stati distrutti con la violenza. I concetti etici originali e le strutture sociali sono state disintegrate con la forza. L’empatia, l’amore e l’armonia fra il popolo sono stati trasformati in lotta e odio. La venerazione e l’attenzione verso il cielo e la terra sono stati sostituiti da un desiderio arrogante di «lottare contro il cielo e la terra». Ciò ha avuto come risultato il totale collasso sociale, morale ed ecologico, nonché una profonda crisi del popolo cinese e per l’intera umanità. Tutte queste calamità sono state provocate con una deliberata programmazione, organizzazione e controllo da parte del partito comunista cinese. Come recita una famosa poesia cinese «Profondamente io sospiro, ma invano, per i fiori che cadono». Speriamo che la fine per il comunismo cinese sia vicina. Speriamo che i suoi giorni siano contati. crede che i tempi siano ora maturi – prima del crollo totale del PCC – per riflettere su ciò che è successo e per denunciare completamente come il più vasto culto settario della storia abbia incorporato la malvagità di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Noi speriamo che coloro che sono ancora tratti in inganno dal PCC distinguano chiaramente la sua natura, si purifichino dal veleno instillato nei loro spiriti, liberino le loro menti dal controllo del male e liberino sé stessi dalle catene del terrore, abbandonando per sempre tutte le illusioni nei suoi confronti. Il dominio del partito comunista cinese è la pagina più buia della storia cinese del XX e del XXI secolo. Crediamo che conoscendo la vera storia del partito comunista cinese possiamo aiutare a prevenire che altre tragedie simili accadano nuovamente. Sì, perché la codardia e la volontà di compromesso dell'Unione Europea e di questo governo italiano equivalgono alla complicità A differenza di quanto avvenuto in occidente e in Russia, il movimento comunista cinese non nacque da una scissione e dalla frattura con una precedente tradizione socialdemocratica, ma direttamente sotto l'influenza dell'Unione Sovietica. Il partito comunista cinese condivise l’esperienza del partito comunista dell’Unione Sovietica di una conquista politica violenta e della dittatura del proletariato e seguì le istruzioni del partito sovietico riguardo la linea politica, quella intellettuale e quella organizzativa. Il partito comunista cinese copiò i segreti e i metodi tramite i quali un’organizzazione esterna e illegale poté sopravvivere, adottando misure di controllo e di sorveglianza estreme. L’Unione Sovietica fu la spina dorsale e il padrino del partito comunista cinese. l'accademico e bibliotecario Li Dazhao o Li Ta-chao (李大釗T, 李大钊S, Lǐ DàzhāoP; Contea di Laoting, 29 ottobre 1888 – Pechino, 28 aprile 1927) fondò a Pechino la "Società della Cina giovane" e nell'ottobre del 1918 organizzò la "Società per lo studio del marxismo" all'interno della biblioteca universitaria della capitale cinese, dove un giovane Mao Zedong o Mao Tse-tung (毛澤東T, 毛泽东S; Shaoshan, 26 dicembre 1893 – Pechino, 9 settembre 1976) si era trasferito da poco per lavorare come assistente bibliotecario. Nel 1921, il PCC venne fondato nella Concessione francese di Shanghai da Li Dazhao e Chen Duxiu. "I comunisti disdegnano di celare le loro idee e i loro scopi. Essi dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti solo rovesciando con la forza tutte le condizioni sociali esistenti". Questa citazione è presa dal paragrafo conclusivo del Manifesto del partito comunista, il più importante documento del partito comunista. La violenza è l’unico ed esclusivo mezzo tramite il quale il partito comunista ha raggiunto il potere. Il partito comunista cinese (PCC) ereditò naturalmente la volontà di violenza, unendola, come vedrete, alla menzogna. Tra il 16 e il 23 luglio 1922, il PCC organizzò il suo II Congresso nazionale a Shanghai: fu approvata l'iscrizione all'Internazionale Comunista e fu redatta una dichiarazione nella quale si analizzava la natura semi-coloniale e semi-feudale della società cinese e si rafforzavano gli ideali leninisti.Al termine dei lavori Inoltre, Chen Duxiu fu riconfermato segretario del Comitato centrale. La posizione dell'Internazionale comunista per quanto riguarda i Paesi colonizzati, che fu fatta propria dai cinesi, chiedeva ai nascenti partiti comunisti di cercare un'alleanza opportunista con la borghesia nazionale. Pensavano che la rivoluzione comunista doveva essere preceduta da una fase democratico-borghese, che avrebbe spazzato via ogni residuo di feudalismo e gettato le basi di un'economia moderna. Inevitabilmente questa posizione portò alla ricerca di un accordo con il fondatore del partito nazionalista Kuomintang, Sun Yat-sen (Xiangshan, 12 novembre 1866 – Pechino, 12 marzo 1925). Di conseguenza, nel 1924, il Kuomintang e il Partito Comunista Cinese formarono il Primo Fronte Unito, dal 1924 al 1927. Il comunismo cinese, come ogni comunismo, deve mentire. Per avvantaggiarsi della classe lavoratrice, il PCC le ha conferito i titoli come “la classe più avanzata”, “la classe altruista”, “la classe guida” e “i pionieri della rivoluzione proletaria”. Quando il partito comunista cinese ebbe bisogno dei contadini promise “terra agli agricoltori”.  Quando il partito comunista ebbe bisogno della borghesia li chiamò “i compagni di viaggio della rivoluzione proletaria” e promise loro “una repubblica di tipo democratico”. Quando i nazionalisti del Kuomintang si difesero ed il partito comunista cinese venne quasi sterminato dal KMT, i comunisti gridarono forte “i cinesi non combattono i cinesi”. Però, appena la guerra contro il Giappone si concluse, il PCC rivolse tutte le sue forze contro il KMT e rovesciò il suo governo. Similmente il PCC eliminò la classe borghese dopo aver assunto il controllo della Cina e alla fine trasformò i contadini e gli operai in un proletariato senza alcuna risorsa economica. La nozione di "fronte unito" è un tipico esempio delle menzogne che il PCC ha raccontato. Al fine di vincere la guerra contro il KMT, il PCC si allontanò dalle sue tattiche abituali, adottando una “politica di unità temporanea” con i suoi nemici di classe, ossia i proprietari terrieri e i ricchi agricoltori. Tuttavia nel 1927 il generale Chiang Kai-shek (蔣中正T, Jiǎng JièshíP) (Xikou, 31 ottobre 1887 – Taipei, 5 aprile 1975) comprese la doppiezza del partito comunista cinese e la natura ambigua dell'accordo con esso. Perciò, con l'attacco di Shanghai, il 12 aprile 1927, ai danni del partito comunista cinese (PCC), delle sue forze e dei suoi militanti civili, il Kuomintang (KMT), ovvero il partito nazionalista cinese, impedì qualsiasi presa di potere da parte dei comunisti nella Repubblica di Cina. Il PCC ha sempre insegnato alla sua gente che Chiang Kai-shek tradì il movimento comunista. In realtà il PCC si comportò come un parassita. Cooperò con il KMT al solo scopo di allargare la sua influenza sfruttando il Fronte Unito. Dall’ottobre 1933 al gennaio 1934, il Partito Comunista subì una totale sconfitta. Nella quinta operazione militare del KMT, che mirava a circondare ed annientare il PCC, il PCC perse una dopo l’altra le sue roccaforti nelle campagne. Con la zona sotto il suo controllo che si restringeva continuamente, il grosso dell’Armata Rossa comunista dovette fuggire. Questa è la vera origine della “lunga marcia”. La “lunga marcia” (ossia una gigantesca ritirata militare) mirava in realtà a spezzare l’accerchiamento e a scappare verso la Mongolia e la Russia lungo un arco che prima andava a ovest e poi a nord. Una volta arrivato, il PCC aveva la possibilità di fuggire in Unione Sovietica in caso di sconfitta. Mentre era sulla strada della Mongolia il PCC incontrò grandi difficoltà. Scelsero di passare dal Jiangxi allo Shaanxi . Un anno più tardi, quando il PCC arrivò finalmente a Shanbei (provincia del nord dello Shaanxi) la forza principale dell’Armata Rossa Centrale era scesa da 80.000 a 6.000 uomini. Il 7 luglio 1937, però iniziò la seconda guerra sino-giapponese, tra la Repubblica di Cina e l'Impero giapponese. Il PCC che prima aveva istiga la rivolta puntando i fucili contro Chiang Kai-shek, attuò una giravolta. In questo modo, non solo il PCC sfuggì a una crisi militare che lo avrebbe disintegrato, ma usò un’opportunità per stringere una seconda alleanza con il governo del KMT, il Secondo Fronte Unito. I libri di testo del PCC raccontano che il partito comunista cinese condusse la Cina alla vittoria nella guerra contro i giapponesi. Quando la guerra sino-giapponese esplose, il KMT nazionalista aveva circa 4 300 000 soldati suddivisi in 515 divisioni di vario tipo. Nel 1937 le divisioni operative erano 170, ciascuna con una forza di 4 000-5 000 soldati. Le due principali armate ("Ottava Armata della Strada" e "Nuova Quarta Armata") del PCC più altre unità irregolari, assommavano a circa 1 300 000 soldati. e la loro forza era ulteriormente indebolita dalle polemiche interne. Il PCC comprese che se avesse dovuto affrontare i giapponesi in battaglia il suo potere sarebbe diminuito. Agli occhi del PCC il punto fondamentale de “l’unità nazionale” non era quello di assicurare la sopravvivenza della nazione cinese, bensì di sostenere ed accrescere il proprio potere. Perciò, durante la sua collaborazione con il KMT il PCC esercitò una politica interna ufficiosa secondo la quale bisognava dare priorità alla lotta per il potere politico. Perciò, da un lato, ufficialmente, il PCC affermava di combattere praticamente spalla a spalla con il KMT per sconfiggere gli invasori giapponesi. Mentre dall'altro lato, il PCC esortava la gente nelle zone controllate dall'alleato KMT a ribellarsi chiamando “i lavoratori a scioperare, i contadini a sabotare, gli studenti a boicottare gli studi, i poveri ad abbandonare il lavoro e i soldati a ribellarsi” così da rovesciare il governo nazionalista. Sebbene il PCC sventolasse la bandiera della resistenza contro i giapponesi, teneva le truppe lontani dalle linee del fronte. Ad eccezione di alcune battaglie, come quella combattuta al Passo di Pingxing, il contributo del PCC alla guerra contro i giapponesi fu molto scarso. Invece impiegarono i loro sforzi per espandere le proprie basi. Quando i giapponesi si arresero, il PCC reclutò i soldati che si arrendevano nel proprio esercito, passando dai 100 000 membri del 1937 a 1 200 000 del 1945. L’esercito del KMT era praticamente solo sulle linee del fronte mentre combatteva i giapponesi. L'esercito del KMT fu coinvolto in 22 battaglie principali, molte delle quali videro impegnati più di 100 000 uomini per parte, 1 171 battaglie minori, molte delle quali con 50 000 uomini coinvolti, e 38 931 scontri di minore importanza. Una valutazione del numero di azioni condotte dalle truppe sotto il controllo del partito comunista cinese è invece decisamente problematica, trattandosi principalmente di azioni di "guerriglia" svolte soprattutto nelle zone rurali della Cina. Invece, il PCC costantemente proclamò che il KMT non aveva resistito ai giapponesi, e che fu il PCC a condurre la grande vittoria nella guerra sino-giapponese. In realtà, ogni sforzo del PCC fu teso ad espandendo il proprio territorio a spese del KMT nazionalista, in qualsiasi modo. Quando l’ex presidente statunitese Herbert Hoover raccomandava il libro Enemy Within [Il Nemico all’Interno, ndt] di padre Raymond J. De Jaegher, aveva commentato che il libro metteva a nudo il terrore contenuto nei movimenti comunisti. Lo raccomandava a tutti coloro che volevano capire una tale forza violenta nel mondo. n questo grande libro De Jeagher racconta di come il PCC abbia usato la violenza per terrorizzare le persone e sottometterle. Ad esempio, un giorno il Partito Comunista ha chiesto a tutti di andare nella piazza del villaggio. I maestri hanno portato i bambini dalla scuola alla piazza. Lo scopo dell’adunata era quello di farli assistere all’uccisione di 13 giovani patrioti. Dopo aver esposto le false accuse imputate alle vittime, i leader comunisti hanno ordinato agli insegnanti terrorizzati di far cantare ai bambini canti patriottici. Ad apparire sul palcoscenico nel sottofondo delle canzoni non erano ballerini, ma il carnefice con in mano un coltello affilato. Era un giovane robusto soldato comunista dalle braccia forti. Il soldato è andato dietro alla prima vittima, con un gesto rapido ha alzato il coltello affilato con un taglio diretto verso il basso, e la prima testa è caduta a terra. Il sangue spruzzava come da una fontana, mentre la testa rotolava al suolo. Il canto isterico dei bambini si è trasformato in un pianto caotico e assordante. Gli insegnanti tenevano il ritmo per cercare di farli continuare a cantare; nel frastuono si sentiva il tintinnio della loro campanella. Il boia ha colpito per tredici volte e tredici teste sono cadute a terra. Dopo di ciò, alcuni soldati comunisti sono arrivati, hanno tagliato i toraci delle vittime e hanno tirato fuori i loro cuori per la festa. Una tale brutalità è stata messa in atto di fronte ai bambini. Tutti i ragazzi erano pallidi per la paura, e alcuni hanno cominciato a vomitare. L’insegnante ha rimproverato i bambini, e dopo averli disposti per file li ha riportati a scuola. Padre De Jaegher vedeva spesso i bambini costretti ad assistere alle uccisioni. I bambini avevano cominciato ad abituarsi agli omicidi sanguinosi, alcuni avevano addirittura cominciato a divertirsi e a trovare eccitanti le scene di morte. Quando il PCC ha capito che il semplice omicidio non risultava abbastanza terrificante ed eccitante, invitò i bambini ad assistere a torture crudeli. Per esempio, forzavano qualcuno ad inghiottire un’enorme quantità di sale senza concedergli di bere, la vittima avrebbe sofferto la sete fino a morire; o spogliavano totalmente qualcuno facendolo rotolare sui vetri rotti; o creavano un buco in un fiume gelato e poi gettavano la vittima nel buco, così che sarebbe morta soffocata o congelata. De Jaegher ha scritto che alcuni membri del PCC nella provincia di Shanxi hanno inventato una tortura terribile. Un giorno mentre vagavano per la città, si sono fermati di fronte a una tinozza gigante piena di acqua calda davanti a un ristorante. Subito avevano comprato diverse tinozze giganti, e immediatamente hanno arrestato diverse persone contrarie al Partito Comunista. Durante l’esperimento, avevano riempito le tinozze di acqua calda bollente. Tre vittime erano state spogliate e gettate là dentro a bollire fino alla morte. A Pingshan De Jaegher ha visto un padre essere scorticato vivo. I membri del PCC avevano costretto il figlio ad assistere e a partecipare all’inumana tortura, a vedere il padre morire tra dolori disumani e a sentire le sue grida. I membri del PCC avevano versato aceto e acido sopra il corpo del padre e così la sua pelle era stata tolta completamente. Hanno cominciato dalla schiena, poi sono passati alle spalle fino a che ebbero tolto tutta la pelle, lasciando intatta solo la pelle del capo. L’uomo era morto dopo pochi minuti.

Ostaggi, perché con i terroristi non si deve trattare



Silvia Romano è stata liberata.  Lo ha annunciato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. il 20 novembre 2018 nel villaggio di Chacama (dove si trovava per svolgere attività di volontariato con la onlus marchigiana Africa milele), a circa 80 chilometri da Nairobi, la giovane cooperante era stata rapita da un gruppo di uomini armati di fucili e machete. La notizia della liberazione di Silvia Romano è stata data dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: “Silvia, ti aspettiamo in Italia”, ha scritto Conte su Twitter, che ha colto l’occasione per ringraziare gli uomini e le donne dei servizi di intelligence. Secondo quanto ricostruito dalla procura di Roma e dal Raggruppamento operativo speciale dell'Arma dei Carabinieri (più spesso indicato semplicemente con l'acronimo ROS), la volontaria era successivamente era stata venduta dalla banda di rapitori ed era stata trasferita in Somalia dove era tenuta prigioniera da un gruppo islamista legato all’organizzazione terroristica al-Shabaab. Alcune fonti hanno rivelato all’agenzia di stampa Adnkronos che l’operazione di salvataggio, svoltasi in collaborazione con i servizi turchi e somali, sarebbe cominciata all’alba del 9 maggio 2020, e sarebbe il risultato di “un lungo e complesso lavoro sul campo, un successo del sistema Italia”. Siamo lieti per la notizia della liberazione della giovane, però, nonostante ciò, non la definiremmo esattamente un "successo". Visto che, sembrerebbe, la trattativa si sarebbe sbloccata nelle ultime settimane e risolta con il pagamento di un riscatto, sul quale ci saranno solo smentite governative. Inoltre, di quale "sistema Italia" stiamo parlando? Nemmeno il sequestro di vittime innocenti dovrebbe autorizzare uno Stato legittimo, com’è l'Italia, al pagamento di riscatti. Automaticamente, infatti, con un atto del genere l'organizzazione terroristica al-Shabaab  è come se fosse stata riconosciuta de facto dall'Italia come un legittimo interlocutore a tutti gli effetti. Un atto, questo del pagamento del riscatto, che accresce all’istante l’efficacia dei sequestri di persona. "La guerra santa costa, ma grazie ad Allah, abbiamo un bottino che ci consente di coprire le spese", scriveva nell’agosto del 2012 Abu Basir, nom de guerre di Nasseir al Wuhayshi, capo di al Qaida nella Penisola arabica, ad Abdelmalek Droukdel, leader di al Qaida Maghreb. Il New York Times ha pubblicato il carteggio tra questi due signori del jihad in cui si parla di strategia, di comunicazione e di contabilità – contabilità di “martiri” e contabilità di soldi. Nella colonna delle entrate, metà dei fondi deriva dal business degli ostaggi, “rapire stranieri è un bottino facile, che definirei un commercio profittevole e un tesoro prezioso”, scrive Abu Basir. Formalmente pagare i riscatti ai terroristi è vietato a livello internazionale da dopo l’11 settembre. C’è una risoluzione delle Nazioni Unite che dice di evitare di dare soldi in cambio di ostaggi e c’è un accordo firmato dai paesi del G8 per fermare quello che gli esperti chiamano “circolo vizioso” e che per al Qaida e l'Isis è, appunto, “un commercio profittevole”. Ma nella realtà le cose vanno diversamente. Nel giro di qualche giorno, New York Times e Wall Street Journal, già nel 2014, avevano pubblicato due grandi articoli in cui raccontavano il business degli ostaggi con numeri e storie e con la smentita ufficiale dei ministeri dei principali paesi europei – anche dell’Italia – sull’utilizzo dei riscatti per salvare concittadini rapiti dai terroristi. Secondo le fonti del New York Times – l’autore dell’articolo era Rukmini Callimachi, era a Bamako: quando lavorava per l’Associated Press, Callimachi trovò migliaia di pagine sui rapimenti in un covo di al Qaida nel nord del Mali – al Qaida e i suoi affiliati avevano, raccolto 125 milioni di dollari in riscatti dal 2008 al 2014, di cui 66 milioni pagati soltanto nel corso del 2013. Il Wall Street Journal citava David S. Cohen,all'epoca  sottosegretario del Tesoro americano che si occupava di terrorismo, il quale diceva che i riscatti erano (e sono ancora oggi, aggiungiamo noi) la principale fonte di finanziamento per i gruppi legati ad al Qaida (ed oggi anche all'Isis) nell’Africa, in Yemen, in Siria e in Iraq. Secondo Cohen, 120 milioni di dollari in riscatti erano arrivati a quei gruppi dal 2004 al 2012, e la filiale yemenita di al Qaida da sola aveva raccolto 20 milioni di dollari.Nel 2003 ogni ostaggio valeva circa 200 mila dollari, nel 2014 si arrivava anche a 10 milioni (secondo fonti europee, già nel 2003 le richieste andavano da un milione a 2 milioni e mezzo di dollari e già dal 2004 i terroristi pretendevano di essere pagati in euro). Gli europei (e, purtroppo, gli italiani) sono i più generosi – spesso i pagamenti arrivano sotto forma di aiuti umanitari o attraverso alleati locali – mentre Stati Uniti e Regno Unito giustamente resistono. Secondo Jean-Paul Rouiller, direttore del Geneva Centre che si occupa di terrorismo, un'organizzazione terroristica islamica “targettizza i rapimenti sulla base della nazionalità”: preferiscono le nazionalità i cui governi li riportano a casa in cambio di ingenti somme. Nel 2004 al Qaida aveva pubblicato un “manuale del rapimento” che pare sia utilizzato ancora oggi. Per minimizzare le perdite, solitamente i gruppi terroristici danno in outsourcing i rapimenti a gruppi criminali che lavorano su commissione. I negoziatori – secondo fonti del controterrorismo statunitense – guadagnano circa il 10 per cento del riscatto, creando una forte motivazione ad aumentare la posta. Il quartier generale dei negoziatori sta prevalentemente in Pakistan, e da lì gestisce anche i rapimenti lontani, in Siria, Yemen e nord Africa: nel 2008, un leader del Maghreb aveva gestito da solo un ostaggio e poi era stato rimosso in quanto era riuscito a ottenere soltanto “la magra somma” di un milione di dollari perché non aveva seguito le istruzioni dal Pakistan. Le tattiche sono collaudate: lunghi periodi di silenzio per creare il panico, video in cui gli ostaggi implorano i loro governi di liberarli e minacce di uccisione. Ogni fase del rapimento ha una modalità di copertura dei costi: i video che provano che l’ostaggio è ancora in vita, per esempio, possono essere ottenuti dai servizi segreti (fu il caso dell’italiana Giuliana Sgrena: ci furono molte pressioni per pagare il riscatto) prima della loro consegna ai network televisivi dietro pagamento di somme che oscillano tra 10 e 20 mila euro. Anche le medicine, un vitto più adeguato e la garanzia che gli ostaggi non saranno maltrattati hanno una tariffa negoziabile. Stando al quotidiano Il Foglio, per quel che riguarda l'Italia, i riscatti verrebbero pagati attraverso “fondi speciali” finiti sotto la voce aiuti umanitari o condivisione di strutture e operazioni d’intelligence. Secondo alcune fonti,, a parte la vicenda del sequestro, nel 2004, di Maurizio Agliana, Umberto Cupertino, Salvatore Stefio e Fabrizio Quattrocchi, tutti gli italiani sequestrati in Iraq, Afghanistan, Yemen, Mali sono stati liberati dietro pagamento di riscatti. E’ stato il caso di Simona Pari e Simona Torretta (settembre del 2004) Giuliana Sgrena (febbraio del 2005), Clementina Cantoni (Afghanistan, maggio 2005), Rossella Urru (ottobre 2011) e Mariasandra Mariani (febbraio 2011). La consegna del riscatto avviene, di solito, attraverso un uomo dei servizi segreti, che rischia la vita, soltanto in alcuni casi è l’intermediario a consegnare i borsoni con la somma pattuita. La pratica è diventata tanto fuori controllo, come lo prova anche il caso di Silvia Romano, che nel 2004 gli Stati Uniti promossero un’iniziativa per proteggere militari e civili in aree a rischio: si trattava di un manuale che spiegava che cosa fare per prevenire il rapimento, come comportarsi al momento del sequestro e durante la detenzione, come inviare segnali mentre si era ripresi in video dai jihadisti e via dicendo. Oltre al manuale c’era un questionario che veniva sottoposto agli ostaggi liberati: grazie alle informazioni raccolte in quel modo, sono stati arrestati molti terroristi. Peccato che l'Italia pur adottando formalmente questa prassi , si fosse rifiutata di divulgare il manuale per non “diffondere il panico tra la popolazione”. Secondo il Wall Street Journal, il Qatar svolge un rilevante ruolo di mediazione: spesso diplomatici qatarioti ricevono pubblicamente ostaggi liberati, mentre funzionari europei e arabi appaiono in televisione per ringraziare l’emirato. Nello marzo del 2014, quando il gruppo di al Qaida in Siria, Jabhat al Nusra, liberò 13 suore e altre donne dopo un accordo negoziato da Qatar e Libano, Doha pagò 16 milioni di dollari di riscatto, secondo una fonte libanese sentita dal quotidiano americano. Nell’ultima parte del suo articolo sul New York Times, Callimachi parlava dell’italiana Mariasandra Mariani, rapita nel sud dell’Algeria nel 2011 e liberata dopo 14 mesi di detenzione: lei diceva ai suoi rapitori che la sua famiglia era modesta, coltivava ulivi sulle colline vicino a Firenze, e il suo governo si rifiutava di pagare riscatti. Il rapitore la rassicurò: “I vostri governi dicono sempre che non pagano. Quando torni, voglio che tu dica agli italiani che il tuo governo paga. Pagano sempre”. Purtroppo, come dimostra il caso di Silvia Romano, ancora oggi in Italia si continuano a prendere molto sottogamba a livello internazionale e nazionale le implicazioni che hanno il riconoscere, pagando un riscatto, un'organizzazione terroristica che si autolegittima attraverso la violenza. Purtroppo, oggi, l'Italia è governata dal Movimento Cinque Stelle, sui cui blog, il blog grillino, scrivevano: ""Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione.".

sabato 9 maggio 2020

Se ridessimo alla Cina nazionalista di Formosa il seggio alle Nazioni Unite preso dalla repubblica comunista?



La questione riguardante lo status politico di Formosa e il difficile rapporto con la Cina ha radici lontane a partire dalla fine della guerra civile cinese nel 1949, quando il legittimo governo della Repubblica nazionalista cinese si ritirò a Taipei e mantenne il controllo sull’arcipelago delle Isole Matsu. Il 1 ottobre 1949 nella Cina continentale fu istituita la repubblica popolare comunista, che non è, né è stata il legittimo successore della repubblica nazionalista. Allora i nazionalisti di Chiang Kai-shek (蔣中正, Jiǎng Jièshí) si rifugiarono sull’isola di Formosa. Purtroppo, da quando la Repubblica nazionalista cinese perse il suo seggio alle Nazioni Unite in qualità di rappresentante della nazione cinese nel 1971, sostituita dalla repubblica popolare comunista, la maggior parte degli stati sovrani hanno spostato il loro riconoscimento diplomatico alla repubblica comunista. Anche se gli Stati Uniti hanno sempre assicurato il sostegno militare. anche se Formosa intrattiene rapporti di collaborazione e di commercio arrivando ad essere riconosciuta da 17 stati in tutto il mondo (Belize, Città del Vaticano, Guatemala, Haiti, Honduras, Kiribati, Isole Marshall, Nauru, Nicaragua, Palau, Paraguay, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Isole Salomone, Swaziland, Tuvalu). Noi anticomunisti siamo convinti che Formosa, le Penghu, Kinmen e le Matsu debbano essere formalmente indipendenti dalla repubblica comunista e che debbano costituire una repubblica cinese nazionalista, in alternativa netta, categorica e definitiva allo stato comunista. De ciò discende che la comunità internazionale occidentale dovrebbe, rimediando al gravissimo errore del 1971, riconoscerla diplomaticamente sia come stato sovrano che come legittima rappresentante della nazione cinese. La repubblica nazionalista cinese di Formosa è ad oggi uno Stato de facto costituito dal gruppo di isole di Formosa, Pescadores, Quemoy e Matsu, che nella sua costituzione rivendica sia la Cina continentale che la la Mongolia Esterna. Noi anticomunisti crediamo fermamente che la repubblica nazionalista cinese di Formosa sia l'unica degna rappresentante della nazione cinese e che uno stato - canaglia quale la repubblica comunista non meriti alcun riconoscimento né diplomatico né commerciale. Sono, disgraziatamente, invece molti i Paesi che hanno deciso di terminare i rapporti diplomatici con Formosa, come il Burkina Faso ed El Salvador, ultimo in ordine di tempo ad aver rotto i rapporti con l’isola, per rientrare nell’orbita comunista di Pechino e godere degli illusori, come avete già visto in un nostro articolo precedente, "benefici economici" derivanti da quella gabbia politica totalitaria che è la "Nuova via della seta". Sarebbe fondamentale (e lo dovrebbe per qualsiasi conservatore e liberale che abbia giustamente orrore del comunismo) che Formosa ritornasse ad "esistere diplomaticamente" e che le siano riaperti gli accessi alle organizzazioni internazionali e alle Nazioni Unite. Come ha chiesto, nel 2016, Michael Tsai Ming-hsien, ex ministro e leader della Taiwan United Nations Alliance, un’organizzazione non governativa. Sul fronte economico c’è da dire che Formosa sta conservando il suo vantaggio tecnologico (che di recente ha dimostrato di avere un peso notevole anche grazie a casi Zte e Huawei, quando sono stati giustamente bandite le due aziende della repubblica comunista) nella produzione di microprocessori di cui Taiwan è uno dei maggiori produttori insieme agli Stati Uniti e alla Corea del Sud. Anche per quanto concerne la produzione di semiconduttori, il colosso mondiale Taiwan semiconductor manufacturing company (TSMC)9, ha garantito di rimanere nella sede nel Hsinchu Science Park di Hsinchu. In questo scenario c’è la posizione notevolissima del presidente statunitense Donald Trump nei confronti di Formosa, infatti la politica del presidente Trump è apprezzata al governo di Taipei, visto che ha rafforzato i legami tra gli Stati Uniti e Formosa, scegliendo la cosiddetta politica di “contenimento”. Mentre l’Unione Europea (ossia il vero e proprio "ventre molle" dell'Occidente) sconsideratamente conferma e legittima le rivendicazioni comuniste di Pechino, attraverso il documento che i membri di altissimo livello dell’Unione Europea hanno firmato nel luglio del 2018 alla presenza del primo ministro cinese, Li Keqiang, in cui viene ribadito che “l’Unione europea riconferma la sua One China policy”. Una chiara legittimazione della posizione comunista, da parte dell’Unione Europea e che si collega al delicato momento attuale in cui il governo comunista di Pechino fa dichiaratamente pressing su un'Italia purtroppo alleata di fatto allo stato - canaglia comunista, a causa del governo di centrosinistra Conte/Di Maio. Da stato totalitario ed aggressivo qual'è la repubblica comunista è fermamente convinta di prendersi Formosa entro il 2050, l’anno dopo il centenario della fondazione della repubblica popolare comunista cinese. L’isola di Formosa, che dista solo 180 chilometri dalla Cina continentale, ha un immenso valore strategico. L'appropriazione di Formosa da parte di Pechino sarebbe pericolosissima in quanto amplierebbe enormemente la portata della potenza militare della repubblica comunista nel Mar Cinese Meridionale, bacino d’acqua di cui Pechino rivendica la sovranità per circa il 90%.