domenica 10 maggio 2020

Ostaggi, perché con i terroristi non si deve trattare



Silvia Romano è stata liberata.  Lo ha annunciato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. il 20 novembre 2018 nel villaggio di Chacama (dove si trovava per svolgere attività di volontariato con la onlus marchigiana Africa milele), a circa 80 chilometri da Nairobi, la giovane cooperante era stata rapita da un gruppo di uomini armati di fucili e machete. La notizia della liberazione di Silvia Romano è stata data dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: “Silvia, ti aspettiamo in Italia”, ha scritto Conte su Twitter, che ha colto l’occasione per ringraziare gli uomini e le donne dei servizi di intelligence. Secondo quanto ricostruito dalla procura di Roma e dal Raggruppamento operativo speciale dell'Arma dei Carabinieri (più spesso indicato semplicemente con l'acronimo ROS), la volontaria era successivamente era stata venduta dalla banda di rapitori ed era stata trasferita in Somalia dove era tenuta prigioniera da un gruppo islamista legato all’organizzazione terroristica al-Shabaab. Alcune fonti hanno rivelato all’agenzia di stampa Adnkronos che l’operazione di salvataggio, svoltasi in collaborazione con i servizi turchi e somali, sarebbe cominciata all’alba del 9 maggio 2020, e sarebbe il risultato di “un lungo e complesso lavoro sul campo, un successo del sistema Italia”. Siamo lieti per la notizia della liberazione della giovane, però, nonostante ciò, non la definiremmo esattamente un "successo". Visto che, sembrerebbe, la trattativa si sarebbe sbloccata nelle ultime settimane e risolta con il pagamento di un riscatto, sul quale ci saranno solo smentite governative. Inoltre, di quale "sistema Italia" stiamo parlando? Nemmeno il sequestro di vittime innocenti dovrebbe autorizzare uno Stato legittimo, com’è l'Italia, al pagamento di riscatti. Automaticamente, infatti, con un atto del genere l'organizzazione terroristica al-Shabaab  è come se fosse stata riconosciuta de facto dall'Italia come un legittimo interlocutore a tutti gli effetti. Un atto, questo del pagamento del riscatto, che accresce all’istante l’efficacia dei sequestri di persona. "La guerra santa costa, ma grazie ad Allah, abbiamo un bottino che ci consente di coprire le spese", scriveva nell’agosto del 2012 Abu Basir, nom de guerre di Nasseir al Wuhayshi, capo di al Qaida nella Penisola arabica, ad Abdelmalek Droukdel, leader di al Qaida Maghreb. Il New York Times ha pubblicato il carteggio tra questi due signori del jihad in cui si parla di strategia, di comunicazione e di contabilità – contabilità di “martiri” e contabilità di soldi. Nella colonna delle entrate, metà dei fondi deriva dal business degli ostaggi, “rapire stranieri è un bottino facile, che definirei un commercio profittevole e un tesoro prezioso”, scrive Abu Basir. Formalmente pagare i riscatti ai terroristi è vietato a livello internazionale da dopo l’11 settembre. C’è una risoluzione delle Nazioni Unite che dice di evitare di dare soldi in cambio di ostaggi e c’è un accordo firmato dai paesi del G8 per fermare quello che gli esperti chiamano “circolo vizioso” e che per al Qaida e l'Isis è, appunto, “un commercio profittevole”. Ma nella realtà le cose vanno diversamente. Nel giro di qualche giorno, New York Times e Wall Street Journal, già nel 2014, avevano pubblicato due grandi articoli in cui raccontavano il business degli ostaggi con numeri e storie e con la smentita ufficiale dei ministeri dei principali paesi europei – anche dell’Italia – sull’utilizzo dei riscatti per salvare concittadini rapiti dai terroristi. Secondo le fonti del New York Times – l’autore dell’articolo era Rukmini Callimachi, era a Bamako: quando lavorava per l’Associated Press, Callimachi trovò migliaia di pagine sui rapimenti in un covo di al Qaida nel nord del Mali – al Qaida e i suoi affiliati avevano, raccolto 125 milioni di dollari in riscatti dal 2008 al 2014, di cui 66 milioni pagati soltanto nel corso del 2013. Il Wall Street Journal citava David S. Cohen,all'epoca  sottosegretario del Tesoro americano che si occupava di terrorismo, il quale diceva che i riscatti erano (e sono ancora oggi, aggiungiamo noi) la principale fonte di finanziamento per i gruppi legati ad al Qaida (ed oggi anche all'Isis) nell’Africa, in Yemen, in Siria e in Iraq. Secondo Cohen, 120 milioni di dollari in riscatti erano arrivati a quei gruppi dal 2004 al 2012, e la filiale yemenita di al Qaida da sola aveva raccolto 20 milioni di dollari.Nel 2003 ogni ostaggio valeva circa 200 mila dollari, nel 2014 si arrivava anche a 10 milioni (secondo fonti europee, già nel 2003 le richieste andavano da un milione a 2 milioni e mezzo di dollari e già dal 2004 i terroristi pretendevano di essere pagati in euro). Gli europei (e, purtroppo, gli italiani) sono i più generosi – spesso i pagamenti arrivano sotto forma di aiuti umanitari o attraverso alleati locali – mentre Stati Uniti e Regno Unito giustamente resistono. Secondo Jean-Paul Rouiller, direttore del Geneva Centre che si occupa di terrorismo, un'organizzazione terroristica islamica “targettizza i rapimenti sulla base della nazionalità”: preferiscono le nazionalità i cui governi li riportano a casa in cambio di ingenti somme. Nel 2004 al Qaida aveva pubblicato un “manuale del rapimento” che pare sia utilizzato ancora oggi. Per minimizzare le perdite, solitamente i gruppi terroristici danno in outsourcing i rapimenti a gruppi criminali che lavorano su commissione. I negoziatori – secondo fonti del controterrorismo statunitense – guadagnano circa il 10 per cento del riscatto, creando una forte motivazione ad aumentare la posta. Il quartier generale dei negoziatori sta prevalentemente in Pakistan, e da lì gestisce anche i rapimenti lontani, in Siria, Yemen e nord Africa: nel 2008, un leader del Maghreb aveva gestito da solo un ostaggio e poi era stato rimosso in quanto era riuscito a ottenere soltanto “la magra somma” di un milione di dollari perché non aveva seguito le istruzioni dal Pakistan. Le tattiche sono collaudate: lunghi periodi di silenzio per creare il panico, video in cui gli ostaggi implorano i loro governi di liberarli e minacce di uccisione. Ogni fase del rapimento ha una modalità di copertura dei costi: i video che provano che l’ostaggio è ancora in vita, per esempio, possono essere ottenuti dai servizi segreti (fu il caso dell’italiana Giuliana Sgrena: ci furono molte pressioni per pagare il riscatto) prima della loro consegna ai network televisivi dietro pagamento di somme che oscillano tra 10 e 20 mila euro. Anche le medicine, un vitto più adeguato e la garanzia che gli ostaggi non saranno maltrattati hanno una tariffa negoziabile. Stando al quotidiano Il Foglio, per quel che riguarda l'Italia, i riscatti verrebbero pagati attraverso “fondi speciali” finiti sotto la voce aiuti umanitari o condivisione di strutture e operazioni d’intelligence. Secondo alcune fonti,, a parte la vicenda del sequestro, nel 2004, di Maurizio Agliana, Umberto Cupertino, Salvatore Stefio e Fabrizio Quattrocchi, tutti gli italiani sequestrati in Iraq, Afghanistan, Yemen, Mali sono stati liberati dietro pagamento di riscatti. E’ stato il caso di Simona Pari e Simona Torretta (settembre del 2004) Giuliana Sgrena (febbraio del 2005), Clementina Cantoni (Afghanistan, maggio 2005), Rossella Urru (ottobre 2011) e Mariasandra Mariani (febbraio 2011). La consegna del riscatto avviene, di solito, attraverso un uomo dei servizi segreti, che rischia la vita, soltanto in alcuni casi è l’intermediario a consegnare i borsoni con la somma pattuita. La pratica è diventata tanto fuori controllo, come lo prova anche il caso di Silvia Romano, che nel 2004 gli Stati Uniti promossero un’iniziativa per proteggere militari e civili in aree a rischio: si trattava di un manuale che spiegava che cosa fare per prevenire il rapimento, come comportarsi al momento del sequestro e durante la detenzione, come inviare segnali mentre si era ripresi in video dai jihadisti e via dicendo. Oltre al manuale c’era un questionario che veniva sottoposto agli ostaggi liberati: grazie alle informazioni raccolte in quel modo, sono stati arrestati molti terroristi. Peccato che l'Italia pur adottando formalmente questa prassi , si fosse rifiutata di divulgare il manuale per non “diffondere il panico tra la popolazione”. Secondo il Wall Street Journal, il Qatar svolge un rilevante ruolo di mediazione: spesso diplomatici qatarioti ricevono pubblicamente ostaggi liberati, mentre funzionari europei e arabi appaiono in televisione per ringraziare l’emirato. Nello marzo del 2014, quando il gruppo di al Qaida in Siria, Jabhat al Nusra, liberò 13 suore e altre donne dopo un accordo negoziato da Qatar e Libano, Doha pagò 16 milioni di dollari di riscatto, secondo una fonte libanese sentita dal quotidiano americano. Nell’ultima parte del suo articolo sul New York Times, Callimachi parlava dell’italiana Mariasandra Mariani, rapita nel sud dell’Algeria nel 2011 e liberata dopo 14 mesi di detenzione: lei diceva ai suoi rapitori che la sua famiglia era modesta, coltivava ulivi sulle colline vicino a Firenze, e il suo governo si rifiutava di pagare riscatti. Il rapitore la rassicurò: “I vostri governi dicono sempre che non pagano. Quando torni, voglio che tu dica agli italiani che il tuo governo paga. Pagano sempre”. Purtroppo, come dimostra il caso di Silvia Romano, ancora oggi in Italia si continuano a prendere molto sottogamba a livello internazionale e nazionale le implicazioni che hanno il riconoscere, pagando un riscatto, un'organizzazione terroristica che si autolegittima attraverso la violenza. Purtroppo, oggi, l'Italia è governata dal Movimento Cinque Stelle, sui cui blog, il blog grillino, scrivevano: ""Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione.".

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