lunedì 4 maggio 2020

Ian Douglas Smith, il Presidente della Rhodesia, un conservatore, un anticomunista, un esempio per il futuro dell'Occidente



Il pensiero unico politicamente corretto dagli anni Cinquanta in poi ci ha contrabbandato una serie di stereotipi falsi. Uno di questi era che i bianchi in Africa erano i colonizzatori, i padroni, che sfruttavano quel territorio e opprimevano quelle popolazioni. Nulla di più falso. E la prova è che da quando l’Africa è “libera”, è precipitata in un abisso senza ritorno, e così i popoli che la abitano e che se ne vogliono andare. E la storia di Ian Douglas Smith, il più grande statista africano, dimostra che con l’Africa negli ultimi cinquant’anni si è sbagliato tutto: e ONU, Unione Europea e tutto l’Occidente sono i soli responsabili della tragedia africana. Ian Smith non era un colono ma un africano. Ian Smith non era un colonialista oppressore, un bianco venuto dal nord per sfruttare l’Africa. No, lui era un africano bianco. L'8 aprile nel 1919 nasceva, dunque, una delle figure più interessanti della politica conservatrice ed anticomunista del ventesimo secolo. Era nato a Selukwe, nel Matabeleland, da una famiglia di farmer bianchi. Smith portò avanti le idee conservatrici, occidentaliste e di tradizione anglosassone nel più ostico degli scenari, combattendo una grande battaglia politica. Quando si parla di Ian Smith e si prova a compiere un’analisi del suo percorso politico, c’è sempre una parola – un’accusa – con cui ci si deve confrontare: il “razzismo”. Inutile sottrarsi a questa questione, che perciò è bene affrontare immediatamente. Ian Smith fu un uomo politico “razzista”? No, assolutamente no, in quanto l’assetto che, nel 1965, Smith si sosteneva in Rhodesia – il governo di una élite bianca – era semplicemente quello che solo cinque o dieci anni prima era considerato normale per l’Africa da qualsiasi rispettabile governo europeo. In questo senso, se si accusa Ian Smith di “razzismo”, l’accusa andrebbe estesa a tutti i capi di governo britannici o francesi che fino a poco prima governavano il continente nero. Secondariamente, è vero che il premier rhodesiano era convinto che la distanza culturale tra bianchi e neri in Rhodesia fosse troppo grande per rendere possibile o desiderabile una piena integrazione – tanto meno un “governo della maggioranza” –, però, egli non ha mai pronunciato una sola parola dalla quale potesse trasparire astio o disprezzo nei confronti della popolazione nera: “Non ho mai avuto problemi a vivere insieme ed ad andare d’accordo con i nostri neri. C’era una distanza culturale nelle nostre rispettive culture, tradizioni o stili di vita, ma purché le cose fossero fatte nel tempo necessario e mantenendo gli standard di civiltà occidentali, non c’era ragione per cui non potessimo vivere insieme con beneficio di tutti ed inserendo pian piano i nostri neri nel sistema”. Smith ha sempre sostenuto come il concetto del modello rhodesiano fosse quello della meritocrazia, all’interno del quale la dinamica dei rapporti razziali si sviluppasse all’insegna dell’”evoluzione”, anziché della “rivoluzione”. Certo, i socialisti ed i comunisti replicheranno che quelle di Smith altro non erano che affermazioni astratte e che la struttura rhodesiana era architettata in modo da garantire indefinitamente un primato politico della minoranza. Non potremo mai averne la prova, però, dato che l’esperimento politico rhodesiano fu sopraffatto dagli eventi, prima che potesse consolidare i propri, buoni frutti.“Eravamo convinti – scrive Smith nella sua autobiografia – che il nostro sistema fosse corretto. Purtroppo il mondo libero, che inizialmente ad esso aveva contribuito, ad un certo punto cambiò idea e ci negò la possibilità di mettere alla prova i nostri convincimenti”. Smith era nato in Rhodesia. La Rhodesia era un paese giovane e Ian Smith fu il primo tra i suoi premier ad esservi nato. Questa circostanza era per lui motivo d’orgoglio e gli ispirava un attaccamento particolare al suo paese. “C’è una cosa che ci distingueva dai funzionari coloniali mandati dalla Gran Bretagna. Loro tornavano a casa ogni qualche anno; noi tornavamo a casa ogni sera”. La Rhodesia godeva di autogoverno interno dal 1922 e dal 1933 il suo primo ministro partecipava alle riunioni del Commonwealth insieme a quelli di Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica. In quarant’anni la minoranza bianca della Rhodesia aveva gestito bene il suo paese che, per molti versi, rappresentava la migliore “success story” che il Regno Unito potesse vantare in Africa. Era evidente che nei rhodesiani fosse forte l’aspettativa di veder premiato il proprio lavoro con la piena indipendenza. Quello che è certo è che ad un certo punto, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, l’Occidente ha operato una svolta ideologica repentina. Il passaggio che sancì il vero inizio della nuova era fu il clamoroso discorso pronunciato dal premier britannico Harold McMillan al parlamento sudafricano nel 1960, nel quale il governo di Londra annunciò la decisione di procedere alla decolonizzazione. In un lasso di tempo molto breve il Regno Unito passò dai valori imperiali e dalla filosofia dello “white man’s burden” alla teoria della liberazione africana. L’errore che è stato compiuto a Londra è ritenere che questo mutamento di sensibilità maturato nella madre patria potesse essere immediatamente applicabile su scala mondiale, in modo decontestualizzato rispetto alle dinamiche sociali, economiche e demografiche dei singoli paesi.Al tempo stesso Londra fu tetragona nell’opporsi all’indipendenza della Rhodesia finché il potere non fosse trasferito alla maggioranza nera – una condizione inaccettabile per la popolazione bianca del paese. Da un giorno all’altro i rhodesiani erano passati da membri a pieno titolo dell’élite del Commonwealth, al pari dei canadesi o dei neozelandesi, ad impresentabili ed anacronistici razzisti; un sistema politico che un attimo prima era considerato assolutamente normale era divenuto un attimo dopo uno scandalo a cui era necessario porre il prima possibile rimedio. I britannici non compresero che il loro nuovo corso non poteva essere applicato allo stesso modo a paesi in cui la presenza occidentale si limitava a funzionari ed amministratori coloniali e ad un paese, come la Rhodesia, in cui invece generazioni di coloni avevano costituito una nazione occidentale ormai autoctona e che o si autogovernava da diversi decenni. La Gran Bretagna ha perseguito, nel caso rhodesiano, una politica di decolonizzazione forzata che non ha riconosciuto all’elemento di origine europea la dignità di interlocutore politico ed istituzionale. Perciò, la Rhodesia è stata tradita sia dalla madre patria britannica che, più in generale, dal mondo occidentale. Ad osservare in retrospettiva, diciamo, affermiamo che questo "grande tradimento" è stato pagato carissimo, sia dalla Gran Bretagna, che dall'Occidente, in termini politici, economici, sociali, demografici. Ian Smith diventò primo ministro della Rhodesia nel 1964, sostenuto da un chiaro mandato elettorale per traghettare il paese alla sovranità. Esaurita ogni opzione negoziale, il governo di Smith si trovò a giocare la carta estrema, quella di una Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza – UDI nel suo allora popolare acronimo inglese: “A noi è stato dato il privilegio di essere la prima nazione occidentale negli ultimi due decenni ad avere la determinazione e la forza di dire ‘Adesso basta’. Saremmo anche un piccolo paese, ma siamo un popolo determinato che è stato chiamato a giocare un ruolo di rilevanza mondiale. Noi rhodesiani abbiamo rifiutato la filosofia dogmatica dell’appeasement e della resa. La decisione che abbiamo preso oggi è il rifiuto dei rhodesiani di svendere i propri diritti. Ci siamo schierati per la preservazione della giustizia, della civiltà e della cristianità – e nello spirito di questo credo abbiamo assunto la nostra sovrana indipendenza”. Altro che quei pagliacci socialisti e comunisti della Catalogna. Ian Smith, l’11 novembre del 1965 rendeva la Rhodesia il secondo paese, dopo gli Stati Uniti nel 1776, a ribellarsi all’autorità britannica. La reazione britannica fu durissima. Londra (purtroppo era, allora, Primo Ministro il socialista Harold Wilson) portò la questione rhodesiana alle Nazioni Unite e promosse un embargo internazionale nei confronti della Rhodesia. Nonostante questo, il paese continuava a crescere; era ricco di risorse e ben amministrato. Smith continuò a promuovere vari iniziative negoziali per ottenere un riconoscimento da parte del Regno Unito, ma tutte si conclusero con uno stallo. Sul piano interno, allora, si dedicò al consolidamento costituzionale della nuova Repubblica della Rhodesia. La Rhodesia ha rappresentato un presidio dei valori occidentali in Africa, un’affermazione delle ragioni del nostro modello di civiltà in una fase storica in cui invece il mondo libero sembrava rassegnato ad un ripiegamento ideologico, una nazione costruita in pochi decenni dal nulla grazie all’intraprendenza ed alla laboriosità.  Il modello rhodesiano funzionava bene. La popolazione bianca aveva uno dei tenori di vita più alti del mondo e la popolazione nera poteva comunque contare su condizioni di vita sensibilmente superiori agli altri paesi del continente. Il modello rhodesiano, inoltre, non escludeva a priori i neri dal processo di decisione politica; per votare, tuttavia, servivano una certa istruzione ed un certo reddito e questo determinava, nei fatti, un elettorato a forte maggioranza bianca. Per un certo numero di anni la Rhodesia fu in grado di alleviare la pressione dell’embargo, grazie alla solidarietà del Portogallo e del Sudafrica. Tuttavia è a partire dal 1974 che i rapporti di forza mutarono definitivamente a sfavore della causa rhodesiana. La catastrofica “rivoluzione dei garofani” metteva fine all’impero portoghese e consegnava il Mozambico ad un governo comunista, filo-sovietico; al tempo stesso le pressioni statunitensi (dal 1977 al 1981 era Presidente, il progressista Jimmy Carter) convincevano Pretoria (nell'illusione di poter salvare Il Sudafrica, sacrificando l'alleato rhodesiano) a ridurre sensibilmente la propria collaborazione con la Rhodesia. Infatti nel 1978, Henry Kissinger, riconosciuto “difensore dei diritti umani” (nonché fautore della disgraziata distensione tra gli Stati Uniti e la Cina comunista; distensione che ha causato danni immensi agli Stati Uniti, all'Occidente intero e che speriamo il Presidente Donald Trump cancelli per sempre), aveva convinto il presidente del Sudafrica, John Vorster, a far mancare l’appoggio sudafricano alla Rhodesia. Smith si trovò quindi solo contro i terroristi. Smith comprese che non esistevano alternative ad una sostanziale apertura negoziale e, nel tempo, si rese conto come questa nuova dinamica non potesse che sfociare verso il suffragio universale. Alle elezioni del 1977 la sua leadership fu contestata da un nuovo partito alla sua destra che lo accusava di cedimenti. Tuttavia, Smith, ottenne ancora una volta un travolgente successo al voto, riuscendo a far comprendere all’elettorato il suo messaggio sull’inevitabilità del cambiamento. Dopo un lungo e delicato negoziato, nel 1978 Smith raggiunse un accordo con le ali più moderate. Venne varata una nuova costituzione che garantiva il suffragio universale, in cambio di una serie di tutele per la minoranza bianca. Le nuove elezioni condussero il primo giugno del 1979 alla nascita della Repubblica di Zimbabwe-Rhodesia con il vescovo Abel Muzorewa alla guida di un governo di coalizione a maggioranza nera, nel quale Smith conservò il ruolo di ministro. Malgrado il nuovo Stato rispondesse a tutte le condizioni storicamente poste da Londra per un riconoscimento, il governo britannico, in virtù della pressione degli Stati neri del Commonwealth, mantenne la sua opposizione ad un riconoscimento. Pochi mesi dopo il Regno Unito convinse Muzorewa a lasciare il potere ed a riportare il paese sotto l’autorità britannica per nuove elezioni che includessero anche i partiti dei leader guerriglieri Robert Mugabe (definito da Smith giustamente “un folle”) e Joshua Nkomo. I quali, con il denaro di Mosca avevano messo insieme mercenari che avevano messo a ferro e fuoco la Rhodesia causando migliaia e migliaia di vittime. Smith fu contrario ad una soluzione che disarmava il governo rhodesiano e lasciava campo libero alla guerriglia per condizionare il voto. Per di più Muzorewa era destinato ad arrivare “bruciato” alle elezioni, in quanto associato al breve governo di coalizione con i bianchi. Il comunista Robert Mugabe vinceva largamente le elezioni ed assumeva la guida dello Zimbabwe. Smith nei primi tempi provò a mantenere un atteggiamento collaborativo con il nuovo governo, comprendendo bene il pericolo per la minoranza bianca di essere percepita strutturalmente come un’opposizione – magari l’unica opposizione – al nuovo potere. Tuttavia, ben presto le violazioni delle libertà democratiche da parte di Mugabe divennero così manifeste che un atteggiamento benevolente o attendista non poteva più essere sostenibile. Smith riorganizzò il suo partito, il Rhodesian Front, nella Conservative Alliance of Zimbabwe, alla testa della quale conquistò 15 dei 20 seggi riservati alla minoranza bianca alle elezioni del 1985, su posizioni di chiara opposizione al governo di Mugabe. Per Smith fu l’ultima vittoria di una lunga carriera politica. L’anno successivo fu espulso dal parlamento e nel 1987 i seggi riservati ai bianchi furono definitivamente aboliti, mentre lo Zimbabwe si avviava a diventare uno Stato comunista. Negli ultimi anni Smith continuò ad occuparsi di politica ed a rappresentare, anche fuori dal parlamento, una voce autorevole dell’opposizione al governo comunista di Robert Mugabe. Visse in Zimbabwe fin quasi alla fine, per poi morire in Sudafrica nel 2007, dove i figli lo curarono nell’ultimo periodo. Nella sua Rhodesia, Smith, fu certamente un grandissimo uomo politico di immenso successo. Ed è altrettanto innegabile la devastazione economica, sociale e morale operata in Rhodesia dal regime comunista di Robert Mugabe. Alla luce di questo si deve ammirare incondizionatamente Smith ed il suo impegno politico, prenderne ad esempio il ferreo anticomunismo, apprezzarne la dignità e l’austerità ed il fatto di continuare a vivere, malgrado i pericoli e le difficoltà, nel paese che amava ed al quale aveva legato la sua intera opera politica. Ogni persona che sia disposto a valutare il passato senza paraocchi ideologici può riconoscere che Ian Douglas Smith amministrò il suo paese con una visione economica, un decoro istituzionale ed un attaccamento sconosciuto alla leadership comunista che gli è succeduta. L’eredità di Smith e della Rhodesia merita di essere difesa per il suo significato in termini di valori occidentali, e, al tempo stesso deve anche essere considerata un esempio di anticomunismo militante, rigoroso ed intransigente a cui ogni uomo politico di Destra dovrebbe ispirarsi. L’era rhodesiana fu “di Destra”. Fu la creazione pionieristica di una nazione, dalla terra nuda e dai primi accampamenti fino alla costruzione di un’economia di successo e di un’identità; fu lo sforzo di creare e difendere la prosperità attraverso il lavoro e la conoscenza; fu il tentativo di estendere le frontiere dell’Occidente, del contenimento attivo ed operante del comunismo, in un momento in cui invece stava per giungere la disgraziata parola d’ordine del ripiegamento e della futura legittimazione ed accettazione internazionale di stati - canaglia come la Cina comunista che, oggi, proprio in Africa dispiega la sua nefasta influenza. Al punto che l'attuale direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità è il comunista Tedros Adhanom, esponente del partito comunista etiopico Fronte di Liberazione del Tigrè. Come ammesso dallo stesso Vladimir Shubin, ex istruttore militare sovietico, nel suo volume del 2008, The Hot “Cold War”: The USSR in Southern Africa, lo Zimbabwe è stato l’avamposto dell’avanzata neocolonialista espansiva cinese e nordcoreana in Africa australe, mentre Angola e Mozambico erano state conquistate da gruppi ribelli finanziati dai sovietici, in Zimbabwe aveva vinto Mugabe, ovvero lo ZANU, Zimbabwean African National Union, sostenuto dai cinesi in rivalità con lo ZAPU, Zimbabwean African Popular Union, sostenuta dai sovietici. La grande opera politica di Ian Douglas Smith è stata la scelta di perseguire l’affermazione dei princìpi e non un realismo politico rinunciatario.Ian Smith è stato un conservatore ed un anticomunista e la sua cultura era impregnata dei princìpi culturali ed istituzionali della migliore tradizione anglosassone. È stato un leader significativo, anche se, purtroppo, la storiografia ufficiale egemonizzata da pseudo "intellettuali" marxisti e comunisti non sarà mai disposta ad attribuirgli un posto. Oblio e imbarazzo questo è quanto viene riservato, in genere, a quella che un tempo era l'Africa bianca. Nessuno potrà mai negare il livello di identificazione che è sussistito tra la vicenda rhodesiana e Ian Douglas Smith. Pochi politici hanno mai raggiunto il medesimo livello di rappresentatività della causa che sostenevano. In poco più di due decenni, la Rhodesia è passata dall’essere uno degli Stati più ricchi del continente ad essere lo Zimbabwe, il secondo Stato più povero al mondo dopo il Ciad. La Rhodesia, una volta definita granaio dell’Africa, oggi è uno Zimbabwe, con una speranza di vita crollata ai trentasette anni di età, oltre metà popolazione affetta da AIDS, una disoccupazione intorno all’80%, dopo aver costretto più di quattromila farmers di origine europea, ma di sentimenti africani, a fuggire, fin dal 2000, per l’esigenza governativa di dare una facile risposta ai suoi disastri, attraverso l’odio razziale (questa volta ai danni dei bianchi) e l’esproprio, si trova con la maggioranza delle terre incolte ed un’agricoltura di sussistenza, in mano a veterani incompetenti di agricoltura e a criminali comuni. Uno degli insegnamenti che si possono trarre dalla tragedia dello Zimbabwe è che un modello istituzionale ben costruito, come quello lasciato in eredita dal governo di Smith, nulla può se non è sostenuto da un corpo elettorale di cultura, valori ed educazione occidentale. Consigliamo la visione del film The white african against Mugabe, che si trova anche su Youtube: è la storia di un vero caso giudiziario del 2007, nel quale il governo Mugabe è stato chiamato in causa da un agricoltore britannico, il quale aveva regolarmente comprato le sue terre in Zimbabwe e si era visto occupare la proprietà, nella quale per altro aveva dato luogo anche a molte attività di assistenza sociale per le famiglie dei suoi dipendenti, da una delle molte bande di criminali comuni assoldati dal governo di Harare, per compiere espropri, intimidazioni, omicidi, stupri. La fine dell’era di Ian Douglas Smith non ha, per noi, chiuso proprio niente, però. Perché il suo anticomunismo è e sarà sempre preziosissimo per combattere la nuova battaglia contro il comunismo cinese e il suo conservatorismo prudente ci sarà parimenti inestimabile per affrontare l'emergenza dell'immigrazione di massa. La vicenda politica dello Rhodesia ci può certamente indurre una serie di considerazioni. In primo luogo, il pericolo rappresentato dal governo di Mugabe cominciò, purtroppo, ad essere chiaro solo dagli anni ’80, quando era troppo tardi per rimediare, e ci sono buone ragioni per le quali l’errore di valutazione compiuto dal Regno Unito nella gestione del dossier rhodesiano abbia contribuito alla diversa e più ragionata gestione, negli anni successivi, della questione sudafricana sia da parte britannica che statunitense (anche se, purtroppo, non da parte del resto dell'Occidente). Margaret Thatcher comprese che un paese come il Sudafrica non poteva essere lasciato nelle mani dei comunisti. Da un lato si rese conto di come embarghi e sanzioni producano effetti largamente controproducenti, dall’altro riconobbe come una transizione politica in quel paese dovesse necessariamente passare, come poi nei fatti è avvenuto, da un accordo interno accettabile anche dalla popolazione bianca. E’ così che, nei confronti del governo di Pretoria, la Lady di Ferro preferì, come Ronald Reagan, una strategia di constructive engagement alle drastiche semplificazioni ideologiche socialiste sposate, purtroppo, dalla maggior parte degli altri governi occidentali. Nel Sudafrica di oggi, molti afrikaner ritengono che l’unica loro possibilità di sopravvivere come nazione sia quella di vedersi riconosciuto un “volkstaat”, cioè la titolarità ad un proprio piccolo stato nazionale nel quale poter essere il gruppo etnico più numeroso. E’ la posizione, ad esempio, di chi sta provando a popolare la cittadina di Orania, nel deserto del Karoo, per farne una comunità autosufficiente.

A questo collegamento puoi leggere la prima delle memorie  di Ian Douglas Smith, tradotte in italiano.

Tutto quello che costituisce memoria, identificazione e coscienza nazionale nel caso della Rhodesia non è è perso per sempre, le idee perenni di Ian Douglas Smith, il suo conservatorismo, il suo occidentalismo, il suo anticomunismo
vivono.

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