La maschera per il viso imposta dalle autorità politiche italiane contro il Covid-19 è diventata, negli Stati Uniti, molto di più di un presidio medico. È un simbolo di responsabilità civile per Nancy Pelosi, la speaker democratica della Camera dei rappresentanti statunitense, mentre per i repubblicani è il simbolo di uno Stato invadente e irrispettoso delle libertà individuali. Il presidente Donald Trump ha di recente visitato una fabbrica in Arizona e ha rifiutato di indossare una maschera, così come il suo vice Mike Pence non l'ha messa in Minnesota. Un recente sondaggio The Associated Press-Norc Center for Public Affairs Research indica il 76% dei democratici inclini a indossare la maschera quando escono di casa contro il 59% dei repubblicani. Politico argomenta che la maschera è "in linea con chi ha una visione collettivistica del mondo, opposta a chi crede nell'individualismo". La conduttrice televisiva di destra, Laura Ingraham, considera le maschere coem un "tentativo di controllo sociale su larghe fette della popolazione". E' una questione che dovremmo valutare attentamente anche qui in Italia. E' vero che, la mascherina è, in linea generale, uno strumento medico per tutelare la salute. Però, nell'insistenza del governo presieduto da Giuseppe Conte, del PD, del Movimento Cinque Stelle c'è un eccesso di fanatismo. Hanno diviso la popolazione italiana in "bravi" (quelli che indossano sempre e comunque le maschere) e "cattivi" (quelli che non le indossano). Puntando, magari, a porre le basi per instaurare in Italia un sistema illiberale di società e di stato, sul modello di quelli comunisti cinesi. Gli italiani dovrebbero fare capire a questi fanatici della mascherina, scrivendoglielo sui social networks, che, se mettono misure di sicurezza scarsamente rispettose delle libertà individuali e frenanti della ripresa economica (saremmo curiosi di conoscere chi è che andrà in un ristorante per una cena romantica bardato con guanti e mascherina, come in una camera operatoria?), non verranno rivoltati.
lunedì 18 maggio 2020
No alle mascherine: sono il simbolo del controllo sociale
La maschera per il viso imposta dalle autorità politiche italiane contro il Covid-19 è diventata, negli Stati Uniti, molto di più di un presidio medico. È un simbolo di responsabilità civile per Nancy Pelosi, la speaker democratica della Camera dei rappresentanti statunitense, mentre per i repubblicani è il simbolo di uno Stato invadente e irrispettoso delle libertà individuali. Il presidente Donald Trump ha di recente visitato una fabbrica in Arizona e ha rifiutato di indossare una maschera, così come il suo vice Mike Pence non l'ha messa in Minnesota. Un recente sondaggio The Associated Press-Norc Center for Public Affairs Research indica il 76% dei democratici inclini a indossare la maschera quando escono di casa contro il 59% dei repubblicani. Politico argomenta che la maschera è "in linea con chi ha una visione collettivistica del mondo, opposta a chi crede nell'individualismo". La conduttrice televisiva di destra, Laura Ingraham, considera le maschere coem un "tentativo di controllo sociale su larghe fette della popolazione". E' una questione che dovremmo valutare attentamente anche qui in Italia. E' vero che, la mascherina è, in linea generale, uno strumento medico per tutelare la salute. Però, nell'insistenza del governo presieduto da Giuseppe Conte, del PD, del Movimento Cinque Stelle c'è un eccesso di fanatismo. Hanno diviso la popolazione italiana in "bravi" (quelli che indossano sempre e comunque le maschere) e "cattivi" (quelli che non le indossano). Puntando, magari, a porre le basi per instaurare in Italia un sistema illiberale di società e di stato, sul modello di quelli comunisti cinesi. Gli italiani dovrebbero fare capire a questi fanatici della mascherina, scrivendoglielo sui social networks, che, se mettono misure di sicurezza scarsamente rispettose delle libertà individuali e frenanti della ripresa economica (saremmo curiosi di conoscere chi è che andrà in un ristorante per una cena romantica bardato con guanti e mascherina, come in una camera operatoria?), non verranno rivoltati.
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venerdì 15 maggio 2020
giovedì 14 maggio 2020
Il Dragone divora i bar e i ristoranti, agevolato dalle misure di sicurezza impossibili
Il commercio cinese prende sempre più piede in Europa, diffondendosi a macchia d’olio e piegando la ristorazione tradizionale: chiudono i bar tradizionali di Venezia. Dopo l'eccessiva chiusura forzata, arrivano delle misure di sicurezza impossibili, approntate dal pomposamente definito "Comitato tecnico - scientifico", dall'Istituto Superiore di Sanità e dall'Inail (Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro), i quali ne capiscono di sanità, però non ne capiscono affatto di economia e di mercato. Però, la colpa non è di queste istituzioni; che, effettivamente, non sono tenute a capirne di economia e di mercato. La colpa è del governo Conte e dei ministri. Loro sì che sono tenuti a capirne. Infatti, già la chiusura aveva costretto al fallimento alcune piccole realtà della ristorazione. Però, adesso, le nuove misure a base di disinfezioni, sanificazioni, distanziamenti, divisori in plexiglas, mascherine (qualcuno ha inventato persino una maschera con tanto di cannuccia per consentire di bere e, forse, chissà, di nutrirsi di soli liquidi, senza levarsela) e guanti causano e causeranno un'ondata di fallimenti di attività a gestione familiare che non riescono e n on riusciranno più a tirare avanti. A prendere il posto di questi gestori, sono i cinesi, con una faccia di bronzo che lascia sbalorditi visto lo scandaloso comportamento del governo comunista; prima, durante e dopo la pandemia. Comportamento che include anche il dare pareri e lezioni non richieste. Un esercente cinese così parlava al Corriere del Veneto: “La Cina ha usato un metodo rigidissimo per l’isolamento della popolazione. Qui invece si consiglia la mascherina solo a chi è ammalato e noi, che veniamo da una cultura in cui la si mette anche per evitare un banale raffreddore, non ne capiamo il motivo.“. Noi, invece, capiamo che, evidentemente, la democrazia non fa parte della "loro cultura", quella comunista. L'Italia è e deve restare una democrazia; non abbiamo bisogno né di pareri, né di lezioni da uno stato e da un governo comunisti; non ci piacciono nemmeno quei "sinistrorsi" piddini e pentastellati che vorrebbero imitare lo stato comunista cinese; e non vogliamo che venga imposta la museruola a nessuno. Però, c'è di più. Indubbiamente, le nuove misure di sicurezze sono delle direttive partorite da scienziati chiusi nell'idea della sicurezza più assoluta e completamente avulsi dalla realtà economica del Paese. Però, un governo degno di questo nome dovrebbe respingerle queste misure. E, l'attuale governo non è estraniato dalla realtà. Allora, ci diciamo, perché le accetta? Non sarà che, dopo la regolarizzazione degli immigrati, promossa dalla ministra delle politiche agricole alimentari e forestali,Teresa Bellanova (in quota al movimentino renziano Italia Viva), ci sarà la concessione del diritto di voto agli immigrati residenti? E, non sarà che i partiti del centrosinistra (PD, M5S, Italia Viva, Liberi e uguali) pensano alle comunità cinesi come prossimo serbatoio di voti? E, non sarà che i partiti del governo auspichino, magari, l'acquisto massiccio di bar e ristoranti da parte delle comunità cinesi finanziate dal Dragone comunista? Sicuramente, sono soltanto delle ipotesi, almeno per il momento. Però, potrebbe essere uno scenario realistico. Tutto ci lascia pensare di sì.
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mercoledì 13 maggio 2020
Senza aspettare il vaccino: la cura al Coronavirus con il plasma iperimmune
di Maria Grazia Martinelli
Ho seguito in data 10 maggio una trasmissione in diretta Facebook (facilmente reperibile e che invito ad ascoltare) alla quale ha partecipato il Dott. Giuseppe De Donno, pneumologo in prima linea nello studio e l’attuazione di un protocollo di cura anti-covid basata sul plasma iperimmune. Il professore ha potuto parlare a briglia sciolta ed in maniera più che esaustiva, mettendo in grado qualsiasi spettatore, quindi anche chi come me non è laureato in medicina, di comprendere l’evoluzione della malattia, l’esito delle cure e di apprendere notizie che nessun Tg e nessuna trasmissione in onda sulle reti nazionali ha dato sinora e, probabilmente, mai darà. Innanzitutto, ciò che ho colto in prima battuta, ricevendone la conferma anche all’esito del suo lungo intervento, è stata l’umiltà di uno scienziato che sta dedicando con passione i due terzi delle sue giornate (da più di tre mesi a questa parte) allo studio ed alla ricerca volti ad individuare la cura più efficace per combattere il virus, mirando al fine ultimo, riconducibile al giuramento di Ippocrate (anche nella versione modernizzata) caro ad ogni medico che svolga la professione e sintetizzabile nel‘curare i malati e tutelare la vita’. Per questo, a tratti, il suo intervento ha avuto toni duri ed animati, giustificati da una messa alla gogna subita ma soprattutto dal suo vissuto: vedere morire le persone e sentirsi impotenti genera una sofferenza enorme che poi cambia la vita, De Donno ha detto “io sono un uomo cambiato non tornerò più quello che ero prima” perché ciò a cui ha assistito durante la pandemia non lo ha visto in 25 anni di carriera, polmoniti così gravi da mandare in terapia intensiva un numero così grande di pazienti. Il protocollo che lo pneumologo mantovano sta applicando è coperto da copyright dal 26 marzo, ciononostante vi sono centri in Italia che lo stanno applicando spacciandolo per loro, che dire? Se vogliamo mutuare il principio ‘dai a Cesare quel che è di Cesare’ dobbiamo anche constatare le eccezioni. La sua attività, per chi ha seguito le vicende televisive o ha letto in proposito se ne è reso conto, è stata indubbiamente ostacolata e non solo da alcuni suoi colleghi probabilmente mossi, chissà, da invidia e gelosia tanto da sminuirne l’operato e sollevare dubbi sulla efficacia della cura a base di plasma. Di fatto, come affermato da De Donno, questa cura non sta comportando effetti collaterali o conseguenze avverse ai pazienti ed ha un costo basso (circa 80 euro a malato). Attualmente, ogni giorno vi sono 7-8 ex-pazienti guariti (di cui alcuni provenienti da varie zone d’Italia) che tramite l’AVIS di Mantova donano sacche del proprio plasma che, a seguito di esplicita richiesta, sono anche inviate ad altre strutture ospedaliere sparse in tutta il territorio nazionale. Oltre al contributo squisitamente scientifico, dicevo, il dott. De Donno, grazie alla trasmissione dal taglio decisamente confidenziale e privo di formalità, ha potuto parlare ‘fuori dai denti’ e non ha esitato a far emergere la sua percezione di ostacoli frapposti. Infatti, ha evidenziato che il lavoro scientifico predisposto unitamente alla sua équipe e che è stato sottoposto al vaglio del mondo scientifico al fine di creare la cd. “letteratura”, deve essere pubblicato quanto prima e non subire ritardi o censure basate sulla contrarietà all’utilizzo del siero iperimmune perché “quando uno rifiuta l’utilizzo oppure impone un giudizio che tende ad impedire l’utilizzo del siero iperimmune poi se ne prenderà la responsabilità” e ha aggiunto “questo è il momento di salvare vite, questo è il momento di avere la progettualità” anche per il futuro. Teniamo presente che De Donno, come dal medesimo dichiarato, ha ricevuto offerte dagli Stati Uniti e non vorremmo piangere un domani per la sua decisione di trasferirsi perché costretto a farlo a causa di comportamenti ostili o noncuranti. Ma di fughe di cervelli in Italia abbiamo il primato! Qual è stato il momento in cui è scattata la molla che ha spinto gli scienziati a studiare qualcosa di diverso rispetto alle cure che si stavano applicando ai primi casi (anche se numerosi) di coronavirus? Il professore ha spiegato che sono partiti da un dato di fatto e cioè che i presidi (esperienza, farmaci, etc.) forniti dai medici cinesi arrivati in Italia risultavano insufficienti, trovarsi dinanzi alla morte dei malati e quindi soffrire nel non riuscire a salvare vite come ci si sarebbe auspicati li ha spinti a concentrarsi sulla ricerca di una cura alternativa ed efficace, così hanno iniziato ad usare il siero iperimmune. Sin da subito il lavoro è stato screditato e sminuito da chi sollevando critiche, ha pontificato dicendo che si stava utilizzando una cura già conosciuta (ai tempi della sars, della difterite, ebola, etc. come per dire ‘hai fatto la scoperta dell’acqua calda’). La replica di De Donno giustamente si è incentrata su un dato quasi banale ma indubbiamente di buon senso e cioè se la cura già si conosceva ed era efficace perché non applicarla anche ora? In realtà – prosegue – alcuni scienziati hanno svilito il lavoro e malconsigliato i politici. Per cui a noi cittadini, oltre alle accuse che molti solleverebbero tipo ‘dalli al complottista’, non rimane che la sensazione/certezza che di fronte a un’emergenza sanitaria di grave entità come quella in atto, la posizione ideologica (e forse qualche altro interesse) possa prevalere sull’esigenza sanitaria e sui principi di Ippocrate! La spinta da più parti che sta inneggiando al vaccino come la panacea di questo male non tiene presente il fatto che comunque il vaccino non risolve la malattia, eventualmente potrà prevenirla. Ma correttamente De Donno, che non è da annoverare tra i cd. ‘no-vax’, si chiede: è meglio preferire nell’immediato una cura a base di siero iperimmune che sta funzionando, tant’è che alcune regioni la stanno condividendo, oppure attendere chissà quanto un vaccino la cui sperimentazione sarà di pochi mesi e quindi non si potranno valutare gli effetti collaterali che lo stesso provoca? La risposta mi sembra facile e scontata. Lo pneumologo ha, inoltre, dichiarato che ancora non è dimostrabile che un ex malato Covid-19 potrebbe ricadere nella malattia, ma lo studio dell’équipe è finalizzata anche a verificare la capacità neutralizzante degli anticorpi sviluppati e la sua durata. La tesi per ora è quella di non escludere una possibile ricaduta da parte, però, di una piccola percentuale di pazienti. D’altronde anche in una qualsiasi influenza stagionale vi è la probabilità che chi la contrae a novembre poi potrebbe riprenderla a gennaio. Quello che è certo è che il virus può mutare e che non si possono, ad oggi, fare previsioni, in ogni caso è essenziale la cautela e la convinzione che il virus non ammette distrazioni. Rimaniamo in attesa che lo studio venga finalmente pubblicato e che chi è chiamato a decidere lo faccia per un fine etico rappresentato dal sostegno alla vita e al bene della comunità, senza strumentalizzazioni ideologiche o di comodo, senza fare terrorismo e senza privare ulteriormente gli italiani delle libertà fondamentali. Abbiamo dimostrato di non essere incoscienti seppur dinanzi a regole esageratamente limitative in tutti i campi, è necessario tornare alla normalità affinché al dramma sanitario non si aggiunga quello economico che, dati alla mano, purtroppo sta già procurando danni.
Fonte: Qelsi
Ecco come funziona la “piovra” cinese
di Graziano Davoli
La pandemia da COVID-19 ha risvegliato una parte di Occidente dal sonno eterno che ha impedito di distinguere gli alleati dagli avversari. Pochi leader coraggiosi hanno tirato giù il drappo che nascondeva al mondo l’immagine del Partito Comunista Cinese. Una mole smisurata, lunghi tentacoli che penetrano in ogni anfratto di realtà. Questa creatura l’anno prossimo compirà 100 anni, una manciata di sabbia al cospetto della storia, che è bastata ad alcuni studenti universitari per creare una vera e propria macchina burocratica. Il PCC si presentava inizialmente come aperto e flessibile, il suo sguardo era rivolto alle masse contadine, bastava giurare fedeltà alla causa rivoluzionaria e contribuirvi attivamente per entrarne a far parte. La mutazione cominciò con la nascita della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, all’interno del partito sorsero gli “intellettuali” ai quali era richiesto semplicemente di conoscere alla perfezione i principi del “Libretto rosso”. Nel 1978 Deng Xiapoing attuò alcune riforme economiche che aprirono il paese all’economia di mercato, gli “intellettuali” si trasformarono in “tecnocrati”. La leadership di Jiang Zemin trasformò il PCC nella piovra che conosciamo oggi. La cosiddetta dottrina delle tre rappresentanze permise al partito di affondare i propri tentacoli nella filiera produttiva; nel mondo della cultura dando al marxismo una dimensione nazionale ma soprattutto nella vita dei cinesi che non avrebbe più lasciato. Gli scandali che portarono al potere Xi Jinping permisero al partito di rafforzare le proprie spire, lo studio delle teorie marxiste venne imposto negli atenei universitari e vennero istituite alcune attività “ricreative” (ovviamente obbligatorie) legate al cosiddetto “turismo rosso”. Il PCC è l’unico vero ascensore sociale per i giovani cinesi che aderendovi possono accedere a professioni meglio retribuite, proprio per questo chi desidera entrarvi è sottoposto ad una rigorosa selezione. Occorre presentare domanda all’unità locale e deve essere scritta rigorosamente a mano per dimostrare buona volontà. Successivamente i candidati vengono formati dalle organizzazioni giovanili per diventare membri. Dopo un anno di formazione il candidato deve ricevere il sostegno di due membri ufficiali, si trova così ad affrontare un periodo di prova nel quale partecipa alle riunioni senza votare. Viene dunque “educato”dai gruppi di partito fino al giuramento. Comincia la scalata ai vertici. Attualmente il partito conta all’incirca 90 milioni di membri, tuttavia pochissimi ascendono al Congresso Nazionale, l’unica forma di democrazia interna. I suoi membri si riuniscono ogni cinque anni a Pechino e hanno il compito di deliberare le linee guida del partito, di eleggere gli organi superiori, di rinnovare la costituzione e di approvare il rapporto politico del leader uscente. Chi si distingue all’interno del Congresso Nazionale entra a far parte del Comitato Centrale che si riunisce una volta all’anno in sessione plenaria. Le sessioni sono in tutto sette. La prima esprime gli organi principali: Politburo, Comitato Permanente e Segretario Generale. La seconda si occupa delle nomine di stato. La terza decreta le riforme economiche. La quarta determina la governance. La quinta rinnova i piani quinquennali. La sesta si occupa del rinnovo dell’apparato ideologico. La settima approva gli emendamenti allo statuto del PCC. Il Comitato Centrale elegge i 25 membri del Politburo, il centro decisionale, che si riunisce ogni due mesi. Il Comitato Permanente del Politburo ha pari importanza. I suoi sette membri vengono eletti ogni cinque anni e si riuniscono una o due volte alla settimana. Le decisioni al suo interno devono essere unanimi. Infine vi è il Segretario generale che ricopre il ruolo di presidente della Repubblica Popolare Cinese e della Commissione militare centrale. Non stupisce l’amore disperato del governo per Pechino. Il suo azionista di maggioranza possiede una struttura simile. Un capo indiscusso ai vertici che fa il bello e il cattivo tempo attraverso una piattaforma online, unico barlume di democrazia interna offuscato da continui problemi sistemici ogni volta che si vota in difformità con la linea ufficiale.
Fonte: L'Occidentale
COVID-19: DOMANDE AGLI ESPERTI. Ma se Covid-19 diventa un raffreddore, perché perseverare con il vaccino? Ma se il virus Sars-CoV2 muta più veloce di una lepre, come fa la tartaruga vaccino ad acchiapparlo?
Domandine agli esperti. Ma se la malattia Covid-19 diventa un raffreddore, perché perseverare con il vaccino? Ma se il virus Sars-CoV2 muta più veloce di una lepre, come farà la tartaruga vaccino ad acchiapparlo? E qualche piccolo passo nella storia recente.
di Marinella Correggia
Se lo dicono loro, i virologi in coro, non dovremmo crederlo, noi profani? Ecco qua.
1. Coro virale dei virologi: «Il Covid19 diventa un raffreddore»
A Piazzapulita (La7), Giuseppe Remuzzi, direttore dell’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri rassicura: «Io vedo questi malati che non sono più quelli di prima. Le persone contagiate oggi stanno decisamente meglio rispetto a quelle infettate due mesi fa.(…) Adesso stiamo facendo degli studi, e non troviamo gli ammalati per fare gli studi, è una cosa bellissima (…) sembra di essere di fronte a una malattia molto diversa da quella che ha messo in crisi le nostre strutture».
Idem con patate per il virologo Massimo Clementi, direttore del laboratorio di virologia del San Raffaele di Milano. Intervistato dal Corriere della Sera afferma:«L’infezione non sfocia più nella fase gravissima, la cosiddetta “tempesta di citochine (…) sono in forte calo i pazienti che hanno bisogno di ospedalizzazione, l’epidemia c’è ancora ma dal punto di vista clinico si sta svuotando. La malattia si è modificata o si sta modificando». E anche: «Il coronavirus ha perso la sua potenza. (…) Ci aspettiamo che questo nuovo coronavirus possa pian piano diventare innocuo, come i suoi ‘cugini’ responsabili del raffreddore». Del resto, «conosciamo
altri 6 coronavirus umani, 4 ci infettano da sempre”. Quello con cui
abbiamo a che fare da qualche mese “potrebbe, se continua così,
modificare il suo profilo clinico di rischio e adattarsi all’ospite,
cambiando geneticamente».
Un altro Massimo, Ciccozzi,
responsabile dell’unità di statistica medica ed epidemiologica
dell’Università Campus biomedico di Roma, ha affermato durante
un’audizione a Senato: «Stiamo osservando che il virus perde potenza; evolve, ma perde contagiosità e, probabilmente, letalità».E anche Matteo Bassetti, direttore del reparto Malattie Infettive dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova, spiega (lo riporta ilmeteo.it): «A marzo questo virus era uno tsunami, ora è diventato un’ondina. Forse è perché ha già colpito i soggetti più fragili, facendo una “selezione naturale”, o forse si è depotenziato. È un’iniezione di fiducia per la fase 2, ma per giudicare se gli italiani si saranno comportati bene ci vorranno 2-3 settimane».
2. Vaccini antinfluenzali di ieri, il caso H1N1
Nondimeno, con una totale mancanza di logica, alla domanda se pensa che il virus scomparirà prima del vaccino, l’esperto Remuzzi – di cui all’inizio – risponde: «Ci
sarà il vaccino, ma probabilmente quando arriverà io mi auguro, se le
cose andranno come vanno adesso, il virus non ci sarà più». Però «servirà per la prossima volta o per altri virus».
Ma il ragionamento dov’è? Servirà per altri virus? Ma i vaccini per le influenze (più che discutibili visto i loro risultati) non vengono cambiati ogni anno sennò non vanno più bene perché i virus influenzali mutano (a differenza di altri)?
A questo punto facciamo un piccolo passo indietro, nella storia recentissima, ma dimenticata. Del resto, «la storia è un’ottima maestra. Ma non ha allievi»: Antonio Gramsci. Che avesse ragione, lo
abbiamo visto tante volte, nei ripetitivi meccanismi che hanno portato
alle guerre di aggressione delle quali si è macchiata l’Italia fino
all’altro ieri. E dunque andiamo al 2009. Virus influenzale A/H1N1, sottotipo del virus dell’influenza A che fu quell’anno il più comune. Spiegava all’epoca il sito Epicentro dell’Istituto superiore di sanità (https://www.epicentro.iss.it/focus/h1n1/faqEcdc ): «L’attuale virus epidemico influenzale A/H1N1 è un nuovo sottotipo di virus di influenza umana che contiene geni di virus aviari, suini e umani in una combinazione che non era mai stata osservata prima, in nessuna area del mondo. I nuovi virus sono spesso il risultato di un riassortimento di geni provenienti da altri virus (scambio di geni). Questo virus A/H1N1 è il risultato di una combinazione di due virus dell’influenza suina che contenevano geni di origine aviaria e umana. Non c’è alcuna prova che questo riassortimento sia avvenuto in Messico».
Epicentro, poi, nell’aprile 2009 (https://www.epicentro.iss.it/focus/h1n1/FaqVaccinoCe ) precisava in una serie di domande e risposte: «Al momento non è disponibile alcun vaccino contro la nuova influenza A(H1N1). Gli unici vaccini attualmente disponibili sono quelli contro i ceppi dell’influenza stagionale 2008/2009». Proseguendo: «Il vaccino contro l’influenza stagionale umana è efficace contro il nuovo virus influenzale A(H1N1)? Non è ancora stato stabilito con certezza se i vaccini contro il virus dell’influenza stagionale 2008/2009 proteggano contro il virus A(H1N1). Dal momento che questo nuovo virus dell’influenza evolve molto rapidamente, è importante sviluppare un vaccino contro il ceppo virale che sta causando epidemie in Messico e in altri Paesi, così da garantire la massima protezione. Tra i virus della normale influenza umana H1N1 (coperta dai vaccini stagionali) e il nuovo virus influenzale A(H1N1) ci sono alcune caratteristiche comuni: non è quindi possibile escludere che si abbia una protezione crociata ma, se si avesse, sarebbe probabilmente solo parziale».
L’11 giugno 2009, l’Oms dichiara lo stato di «pandemia» per il nuovo ceppo di origine suina H1N1. La prima pandemia globale dopo quella dell’influenza di Hong-Kong del 1968. Il 10 agosto 2010, la stessa Oms revoca la pandemia: l’attività dell’influenza a livello mondiale è tornata ai tipici ritmi stagionali (https://www.cidrap.umn.edu/news-perspective/2010/08/who-says-h1n1-pandemic-over). I morti ci furono, ma quanti? I decessi confermati della pandemia fra aprile 2009 e agosto 2010 furono 18.500. Secondo Lancet (https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(12)70121-4/fulltext ) «quel numero è probabilmente solo una frazione del numero totale di morti associate alla pandemia influenzale A H1N1». La stima della rivista medica arrivava a 201.200 decessi per cause respiratorie (il range andando da 105.700 a 395.600) più aggiuntivi 83.300 decessi per ragioni cardiovascolari (range fra 46.000 e 179.900). Insomma, un’inflazione di numeri.
Ma dunque cosa accadde all’epoca del virus H1N1 sul lato del vaccino? Prendiamo un articolo, chiaro fin dal titolo («Ecco quanto ci è costato il flop del vaccino», di Elena Dosi) del gennaio 2010, sul quotidiano mainstream Repubblica (https://www.repubblica.it/cronaca/2010/01/16/news/vaccino_virus_a-1966773/): «La pandemia fugge. I costi dei vaccini restano. Ventiquattro milioni di dosi acquistate dall’Italia contro il virus H1N1 al prezzo di 184 milioni di euro, 10 milioni di dosi ritirate dalle fabbriche e distribuite alle Asl, 865mila effettivamente inoculate. La stragrande maggioranza delle confezioni resta stoccata nelle farmacie delle Asl, nei centri vaccinali dei distretti o negli studi dei medici di famiglia. Un viaggio tra le aziende sanitarie italiane parla di frigoriferi pieni (i vaccini vanno conservati a 4 gradi pena la loro degradazione) e di scetticismo fra i cittadini al centro della campagna di immunizzazione. Oltre 20 milioni di persone rientrano tra la “popolazione eleggibile” da vaccinare secondo il ministero, ma solo 827mila hanno porto il braccio alla siringa, con una proporzione del 3,99%. E se l’Italia ha già deciso di donare il 10% delle proprie dosi (2,4 milioni) all’Oms perché le distribuisca ai paesi poveri, la gran parte delle boccette sembra avviata alla scadenza, prevista 12 mesi dopo la data di produzione e quindi a scaglioni tra settembre e dicembre 2010. A quel punto, non resterà altro da fare che buttarle. Dalle università alcuni virologi provano a spiegarci cosa è successo, e il perché di tanta sproporzione. “L’influenza mette sempre in difficoltà chi deve fare previsioni. I modelli possono saltare, i virus ci sorprendono spesso” fa notare Pietro Crovari, professore emerito di igiene e medicina preventiva all’università di Genova». .
E ancora una volta: dove sta la logica? Continua l’articolo: «Ma per la Novartis che ha stipulato il contratto con il Ministero della Salute l’incasso sarà pieno lo stesso. I 184 milioni pattuiti nel contratto del 21 agosto 2009 (quando la pandemia colpiva soprattutto le Americhe e non aveva ancora raggiunto l’Italia) saranno versati in toto anche se i vaccini consegnati sono meno della metà di quelli concordati. Nel contratto infatti non esiste una clausola di riduzione a favore del ministero. E se ieri il Codacons ha annunciato una class action a nome dei 60 milioni di utenti del sistema sanitario italiano, anche la Corte dei Conti ha avviato una procedura di controllo sul “decreto direttoriale del 27 agosto 2009 concernente l’approvazione del contratto di fornitura di dosi di vaccini antinfluenzale A(H1N1) stipulato tra il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali e la Novartis Vaccines and Diagnostics s. r. l.2. Il Codacons chiede la risoluzione del contratto con l’industria farmaceutica (“Uno spreco immane vista la scarsa adesione alla vaccinazione”) e il rimborso ai cittadini dei 184 milioni di euro spesi.»
3. La poco simpatica storia del Tamiflu contro l’incubo dell’aviaria A(H5N1)
E vogliamo parlare anche del farmaco inutile Tamiflu (Roche) contro l’influenza aviaria A(H5N1)? Cominciamo però dai morti che fece fra il 2003 e il 2014. Ecco i dati ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) (consultabili qui: http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato1560712.pdf). La tabella Cumulative number of confirmed human cases for avian influenza A(H5N1) reported to WHO, 2003-2014 riporta… 650 casi con 386 morti (concentrati in 16 paesi (ma soprattutto Indonesia, Vietnam, Cina, Cambogia, Egitto).
Ingentissime furono le spese per un farmaco inutile. Sul sito del Sindacato italiano veterinari di medicina pubblica Sivemp Veneto (https://www.sivempveneto.it/il-farmaco-inutile-contro-laviaria-pagato-dai-governi-oltre-tre-miliardi-ricerca-indipendente-qsmontaq-il-tamiflu-inefficace/), nel 2014 Corrado Zunino scriveva: «Il costoso farmaco Tamiflu che ci avrebbe salvato dall’aviaria, che avrebbe impedito il passaggio dell’influenza dai polli all’uomo su scala mondiale e combattuto un’epidemia che nei grafici clinici avrebbe potuto fare 150mila morti soltanto in Italia, non è servito a niente. Solo a gonfiare i bilanci della Roche spa, multinazionale svizzera che grazie alle ondate di panico collettivo ha venduto nel mondo, solo nel 2009, confezioni per 2,64 miliardi di euro. Due miliardi e sei per un solo farmaco che, si calcola, a quella data è stato utilizzato da 50 milioni di persone. Inutilmente. Già. Un gruppo di scienziati indipendenti – Cochrane collaboration – ha ripreso in questi giorni un suo studio realizzato nel 2009 sul rapporto tra l’antivirale Tamiflu e l’influenza suina (seimila casi mortali nel mondo). E se allora l’organizzazione medica no profit sosteneva che non c’erano prove a sostegno dell’utilità del medicinale per la suina, ora si spinge oltre e lo stampa sul British medical journal: per l’influenza aviaria (62 morti accertati, fino al 2006) l’antivirale della Roche è stato inutile. Lo si certifica adesso, ma per dieci anni una teoria di stati nel mondo, sull’onda della speculazione emotiva, ha accumulato milioni di confezioni, buttato valanghe di denaro pubblico e, dopo cinque stagioni, buttato anche le confezioni scadute. Secondo la controricerca il Tamiflu (dai 35 ai 70 euro a scatola, secondo richiesta e Paese) contrappone alle influenze gli stessi effetti del più conosciuto Paracetamolo. Non ha prevenuto la diffusione della pandemia, né ha ridotto il rischio di complicazioni letali. Ha attenuato solo, nei primi quattro giorni del contagio, alcuni sintomi. Una tachipirina, non certo la panacea per epidemie da kolossal. Ecco servito un nuovo caso di inganno Big Pharma, segnalato da ricercatori che hanno rilevato errori e mancanze in ogni stadio del processo: la produzione, le agenzie di controllo, le istituzioni di governo. (…) il Tamiflu passerà alla storia della farmaceutica contemporanea come il medicinale più gonfiato e redditizio».
4. Le idee dei virologi cambiano veloci come i virus influenzali
Gira sui ceppi accesi di whatsapp una collezione di ipsi dixerunt: dieci
faccione di virologi e per ognuna una dichiarazione risalente al mese
di febbraio a proposito del CoVid19. All’epoca, il virus Sars-CoV-2
aveva già dispiegato i propri effetti sanitari e politici in Cina.
Roberto Burioni: «In Italia siamo tranquilli, il virus non c’è. Il rischio è zero, preoccupatevi dei fulmini». Massimo Galli: «L’avanzata a livello globale è molto bassa. In Italia il virus non si diffonderà». Filippo Luciani: «Il Coronavirus è meno letale dell’influenza». Fabrizio Pulvirenti: «L’epidemia influenzale è ben più grave e diffusibile (sic) rispetto al Coronavirus». Matteo Bassetti: «Non bisogna fare nulla (per difendersi dal virus). Certo non serve mettersi le mascherine». Ilaria Capua: «Questo virus è molto meno aggressivo di tante infezioni che conosciamo». Giovanni Di Perri: «Quello che stiamo affrontando è un fenomeno infettivo simile all’influenza: frequente e banale».
Di lì a poco, i virologi avrebbero virato di 180 gradi (en douce, come dicono i francesi: di soppiatto) trasformandosi in produttori industriali di panico.
Ora
a quanto pare sono tornati al punto di partenza e il giro di 360 gradi è
compiuto. Mentre nel frattempo errori su errori hanno provocato morti
su morti.
Una storia che gli esperti studieranno.
Forse.
Marinella Correggia (10 maggio 2020)Fonte: Emigrazione Notizie
I primi drammatici effetti della "ripartenza" che non c'è
Purtroppo, insieme all'inesistente "ripartenza", cominciano gli effetti drammatici, drammaticissimi. E’ un vero e proprio dramma quello che stanno attraversando gli imprenditori in questi tempi in cui un governo, un Comitato tecnico-scientifico ed altre organizzazioni che non comprendono assolutamente niente di economia decidono dei destini delle loro imprese. Già piegati dagli errori dei precedenti governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, adesso il governo Conte dà agli imprenditori il colpo più forte. Questa falsa "riapertura" a base di misure di sicurezza costosissime causa agli imprenditori (dopo la lunga, sbagliata chiusura e l'inservibile "decreto liquidità") un ulteriore danno economico da cui rialzarsi sarà impossibile. Finora, gli imprenditori hanno tentato di fare i conti e di tirare avanti, però, adesso, questa falsa "ripartenza" ed il prolungamento dello stato di emergenza hanno cancellato ogni speranza. I risultati sono, purtroppo, i suicidi degli imprenditori. L'Osservatorio ''Suicidi per motivazioni economiche'' della Link Campus University - Osservatorio permanente sul fenomeno delle morti legate alla crisi e alle difficoltà economiche avviato nel 2012 - pubblica oggi i dati aggiornati lanciando un severo allarme per il dramma che si sta consumando nel nostro Paese: ''quella che osserviamo - dichiara Nicola Ferrigni, professore associato di Sociologia generale e direttore dell'Osservatorio ''Suicidi per motivazioni economiche'' - è una tragedia nella tragedia in cui alle già tante vittime del Coronavirus occorre sommare i tanti, troppi suicidi legati agli effetti economici dell'emergenza sanitaria. I dati - prosegue il sociologo Ferrigni - sono impietosi: dall'inizio dell'anno sono già 42 i suicidi, di cui 25 quelli registrati durante le settimane della chiusura forzata; 16 nel solo mese di aprile. Questa ''impennata'' risulta ancor più preoccupante se confrontiamo il dato 2020 con quello rilevato appena un anno fa: nei mesi di marzo-aprile 2019, il numero delle vittime si attestava infatti a 14, e il fenomeno dei suicidi registrava la prima vera battuta d'arresto dopo anni di costante crescita''. Di pochissimi giorni fa la notizia dell’imprenditore Antonio Nogara, di Napoli, morto suicida attanagliato dalle preoccupazioni e dalle difficoltà di una crisi che in questi mesi di ”fermo” non aveva certo risparmiato la sua impresa, i dipendenti e le sue responsabilità come titolare d’azienda. Si è tolto la vita, impiccandosi nei capannoni della sua azienda, situata alla periferia est di Napoli, quando ormai aveva perso tutte le speranze: le notizie aveva contribuito a levargli ogni speranza, creandogli un malessere tale da non trovare alcuna soluzione. Ha lasciato una lettera d’addio per spiegare come il suo tragico gesto sia legato a motivi di natura economica. Racconta un amico al Corriere della Sera: “era un riferimento positivo. Se lo Stato non interviene prontamente, ci saranno altri casi come il suo. Per un imprenditore è dura sentirsi umiliato. Se ci sono le tasse ci devono essere anche gli aiuti concreti nel momento del bisogno”. Un altro caso straziante, dopo quello di Carmelo Serva, un ristoratore. A questi numeri, di per sé già spaventosamente significativi, vanno poi aggiunti anche quelli relativi ai tentati suicidi: 36 da inizio anno, 21 nelle sole settimane di chiusura forzata. Gli ultimi dati diffusi dall’Osservatorio alzano a 1.128 il totale dei suicidi legati a motivazioni economiche in Italia dal 2012 a oggi, e a 860 i tentati suicidi. Le vittime, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio, sono per lo più imprenditori: 14, sul totale dei 25 casi registrati nel periodo del blocco. Un numero raggelante che sottolinea, ancora una volta, e oggi con maggiore forza, la necessità di intervenire con misure e interventi a sostegno del tessuto imprenditoriale. “Pochi mesi fa il nostro Osservatorio rimarcava, in un contesto di fiducia dato dal generalizzato calo del numero dei suicidi, soprattutto tra disoccupati e precari, l’esigenza di un programma di politiche economiche più ampio e strutturato, capace di guardare in modo particolare alle imprese e agli imprenditori”. “Oggi più che mai questa esigenza diventa stringente – conclude Nicola Ferrigni – non solo per ricostruire il nostro Paese e per far ripartire l’economia, ma anche per prevenire quella che si sta delineando come una strage silenziosa, di cui le principali vittime sono gli imprenditori in difficoltà”. Lo abbiamo già scritto, lo riscriviamo e lo riscriveremo: se non si vuole giungere ad una crisi irrisolvibile, sono indispensabili sia un governo che abbia la fiducia dei mercati che l'abrogazione di tutte le misure eccessivamente stringenti di sicurezza che bloccano la ripresa economica.
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